BP2011 MATERIALI Canto per Torino

Con un articolo del 2007

Pubblicato il 28/02/2011 / di / ateatro n. #BP2011 , 132

Nel 1995 il Canto per Torino è stato uno spettacolo.
Negli ultimi lustri sono successe un´infinità di altre cose, a Torino, ma basta scorrere il cast per capire che il Canto per Torino è una sorta di gesto fondativo.
A scrivere i testi c´erano, tra gli altri Giuseppe Culicchia e Alessandro Baricco, in scena c´erano tanti attori, ricordo solo tre ragazze: Paola Rota, Serena Sinigaglia, Emma Dante.
Quindi: ho detto che quello spettacolo fu un gesto fondativo perché conteneva, in nuce, molto del teatro di oggi.
Conteneva le persone, ma, quello che importa, conteneva le idee.
Nel cast, prima, ho dimenticato gli organizzatori, ne dico uno per tutti: Giorgio Guazzotti.
L´ho detto per ultimo perché parto da lui per raccontarvi le idee del Canto.
Forse il Canto per Torino è stato l´ultimo spettacolo di Giorgio Guazzotti. Giorgio prima di fare teatro lavorava alla Olivetti. I suoi maestri, quindi furono, naturalmente Paolo Grassi, ma, prima di lui, Adriano Olivetti. Adriano Olivetti, negli anni Cinquanta fondò un movimento politico che si chiamava “Comunità”. Uno degli obiettivi del Movimento di Comunità era il federalismo… Negli anni Cinquanta.
Ma cos´era il federalismo di Adriano Olivetti? Era che nelle fabbriche di Ivrea ci lavorava la gente di Ivrea, del Canavese. Gente che, finito il lavoro in fabbrica tornava nella vecchia cascina di famiglia e fino al tramonto lavorava anche un po´ la terra…
Sfruttamento intensivo della manodopera?
No: antidoto all´alienazione. Comprensione della complessità del lavoro e dei suoi processi. Per quest´idea di federalismo Adriano Olivetti, naturalmente fu accusato di xenofobia: “Non vuole gli immigrati a lavorare nelle sue fabbriche: razzista!”…
Ma il suo federalismo non era solo questo. Era una cosa sottile che si chiama comprensione degli opposti. Mentre ad Ivrea voleva solo indigeni, Olivetti andava a costruire fabbriche a Pozzuoli e a Matera, perché campani e Lucani restassero a lavorare nella loro terra a valorizzare la loro terra. Non chiudersi per paura degli altri, ma raccogliersi per relazionarsi agli altri.
Il contrario di quello che faceva la FIAT negli stessi anni, che deportava migliaia di persone, costringendo il territorio piemontese a salti mortali urbanistici che solo adesso cominciamo ad assorbire. Ecco, io penso che nel DNA di Guazzotti fosse rimasta quest´idea olivettiana di federalismo, e credo che lui l´abbia trasmessa al Canto per Torino.
Dicevo che il Canto è stato un gesto fondativo: ma i gesti fondativi, originari, non hanno alle spalle il nulla. Costruiscono il futuro perché comprendono il passato. Uno come Richi Ferrero, per esempio, faceva installazioni urbane già negli anni Settanta. Faceva atterrare aeroplani nelle piazze molto prima della Fura del Baus e faceva ballare acrobati sui tetti quando il Cirque du Soleil non era neanche un progetto… Ecco, quest´idea della spettacolarità urbana si è capito cos´era chiaramente solo nel 2006, con le Olimpiadi, ma era già contenuta nel Canto per Torino. Mi spiego: viviamo in un flusso di comunicazione continuo: cinema, internet, telefonini, televisione. La visibilità di un prodotto passa attraverso questi mezzi. Ma il teatro non è uno di questi mezzi. Il teatro dà una notorietà molto circoscritta. E´ un media ma non è un mass-media. Il teatro è antico, come le città. Le città ormai sono grandi musei a cielo aperto, parchi tematici che hanno per tema sé stesse. Sono prodotti da promuovere, questo non deve più scandalizzare nessuno. Ma sono anche luoghi di concreti rapporti umani. Se la città come prodotto culturale da promuovere ha bisogno dei mass media che ne moltiplichino l´immagine, la città come luogo concreto dei rapporti umani ha bisogno del teatro, che serve a comunicare senza mediazioni. Se il cinema e la televisione servono a far vedere un prodotto fuori dalla fabbrica, il teatro serve a concepire al proprio interno il prodotto, a far funzionare la fabbrica. Se il mondo assiste al “grande evento Torino” attraverso televisione e cinema, il grande evento Torino funzionerà perché c´è una fabbrica che lavora per produrlo. E deve essere una fabbrica che si nutre di rapporti umani quotidiani. Ecco un´altra idea, fondata nel Canto per Torino, che poi sono due: la grande spettacolarità urbana è una possibilità di teatro del futuro. E il teatro del futuro, come quello del passato, è fatto di ambienti culturali. Se i mass media illuminano la città dall´esterno, come i bengala che durante i bombardamenti lanciavano gli aerei degli alleati, il teatro illumina la città dall´interno, come una buona rete di lampioni.
Il Canto per Torino era un ambiente culturale perché coniugava il territorio e la spettacolarità, l´evento e la continuità.
Dico ancora due idee del Canto . Ce ne sarebbero tante ma ne dico due: Marco Paolini non era in scena. Ma veniva alle prove e mi suggerì il finale dello spettacolo, come aveva fatto tante volte per i nostri spettacoli precedenti. Ricordo Marco Paolini perché è l´incarnazione della narrazione. E un´altra idea incastonata nel DNA del canto, naturalmente, era la narrazione. E io faccio fatica a trovare un’altra categoria della comunicazione che negli ultimi anni sia nata dal teatro e abbia trovato così ampia diffusione nella società: dalla scuola alla scienza, dal giornalismo alla politica. Credo che la narrazione dia senso ad anni di teatro di ricerca, perché si fa ricerca per trovare idee che poi contagino la società, permeandola in tutte le sue articolazioni. Altrimenti trionfa la vanità autoreferenziale.
L´ultima idea che fondava il Canto per Torino era la sobrietà. Soprattutto economica. Questo spettacolo così carico di promesse, con un cast così ricco, costò pochissimo. E qui devo ancora ricordare Giorgio Guazzotti che alle mie lamentele per le ristrettezze rispose: “Non devi arrabbiarti per aver speso meno, devi essere orgoglioso”.
Aveva ragione: venivamo da un periodo in cui era un vanto per i registi sforare i budget, sfasciare i bilanci dei teatri. E critici e studiosi li aizzavano… Invece nel Canto eravamo riusciti a contenere i costi (anche perché i soldi erano quelli, ed erano pochi), però io non avevo rinunciato a niente. Certo le paghe di tutti erano molto basse, ma nessuna idea aveva dovuto essere sacrificata. Avevamo dovuto razionalizzare, naturalmente. Roberto Tarasco, uno degli uomini più detestati del teatro, aveva fatto i salti mortali per stare nel budget: e forse è per questo che lo si detesta. Io invece gli sono riconoscente. E sono contento di aver seguito anche in questo caso il consiglio di Giorgio Guazzotti, che mi disse, dopo una discussione piuttosto concitata con Tarasco: quello lì tienitelo d´acconto. Me lo sono tenuto d´acconto e grazie a lui, sedici anni dopo il Canto per Torino, siamo riusciti ad applicare la stessa sobrietà a Rusteghi, lo spettacolo in scena in questi giorni al Carignano. Il bilancio di Rusteghiall´inizio era il doppio di quello che abbiamo usato. Alla fine abbiamo speso la metà del budget. Ma come nel Canto io non ho dovuto rinunciare a nessuna idea d´arte. Anche in questo caso le paghe di tutti sono molto basse. Ma di questi tempi essere riusciti a dimezzare il costo di produzione di una spettacolo ci riempie d´orgoglio. Come abbiamo fatto? Abbiamo razionalizzato. Abbiamo applicato la sobrietà del Canto per Torino. Si può fare anche nelle grandi istituzioni: ci vogliono magari sedici anni e bisogna essere disposti a farsi detestare, ma si può fare. E qui voglio chiarire bene una cosa: i tagli alla cultura sono uno scandalo perché sono inutili. Se si azzerassero completamente il bilancio dello Stato risparmierebbe un´inezia, perché i soldi che in Italia si spendono per la cultura sono un´inezia: quindi non solo non si devono tagliare, ma stato, regioni e città dovrebbero raddoppiarli, triplicarli, nel proprio interesse. Ma questo non mi impedirà mai di dire che il mondo della cultura spreca, specie nelle grandi istituzioni. E questo lo rende impopolare. La vanità autoreferenziale di certe scelte costringe poi a mentire sul fatto che la cultura costa così. Non è vero! Per la cultura si deve spendere di più ma deve costare meno. Si può fare! Si deve fare perché continuando a difendere quel poco che rimane, si legittimano i nemici della civiltà a continuare a tagliare, come di fatto stanno facendo. In questo momento la difesa dell´esistente giustifica solo la politica dell´interesse immediato, che strumentalizza la cultura, come l´urbanistica, l´economia e tutto il resto al mantenimento esclusivo del proprio potere. Adesso ci vogliono le idee. E qui a Torino, dal Canto per Torinoin poi ne abbiamo prodotte parecchie. Bisognerebbe prenderle e metterle in produzione.
Dopo le Olimpiadi Gabriele Ferraris sulla “Stampa” scrisse che il teatro era rimasto fuori dalla nuova Torino. Allora me la presi un po´. Ma come? Le cerimonie olimpiche o la festa della 500 non sono state il cuore della rinascita? Bookstock non è stato un simbolo della nuova Torino? E quelli non erano spettacoli teatrali? Non è anche quello il teatro della nuova Torino? Glielo dissi, un giorno che lo incontrai. “Ah, già”, fece lui, “ma il mondo del teatro quello non lo considera mica teatro”. “Ah già”, pensai io.
Insomma, tutte le idee del Canto per Torino, il federalismo teatrale, la cura, il matrimonio di ambienti culturali e grande spettacolarità, la coniugazione di eventi e territorio, la sobrietà… ecco, tutto questo potrebbe essere riportato ad un valore di fondo che voglio ribadire: da quando mi occupo di teatro ho sempre visto contrapposizioni ideologiche: il teatro di regia contro il teatro d´attore, il teatro d´arte contro il teatro commerciale, il teatro di ricerca contro il teatro di tradizione, e chi più ne ha più ne metta… ma non si tratta di realtà: sono categorie ideologiche novecentesche. Sono convinto che vada salvaguardata la memoria di questi fenomeni. Ma, proprio per questo bisogna prendere atto che non esistono più; fatto questo primo passo, si potrà smettere di catalogare, classificare, separare, dividere, contrapporre – come si faceva nel Novecento – e cominciare a comprendere.
E questo era quello che volevo dire sul Canto per Torino. Ma se ho ancora qualche minuto, visto che ho ricordato Giorgio Guazzotti che è stato un po´ il padre di quell´esperienza, credo che questa assemblea sia il luogo giusto per ricordare un’altra persona che a modo suo si è assuto la responsabilità di collegarci il passato con il futuro, perché di questi tempi credo che questa sia la cosa importante.
Il Professore era alto due metri, aveva occhiali rotondi con la montatura nera e di scarpe portava il 50. Aveva più o meno l´età di Grotowski, di Barba, di Peter Shumann. Una generazione di maestri che nella seconda guerra mondiale erano ragazzini. Gente che aveva bisogno di piedi grandi per camminare nel deserto di cenere del dopoguerra. E loro ci hanno viaggiato in lungo e in largo, cantandolo. Il Professore dirigeva il Centro di Ricerca Teatrale di Milano. Nel 1987 produsse un mio spettacolo, Riso amaro. Dopo il debutto mi invitò a cena. Mi parlò a lungo dei maestri, delle loro gesta e anche dei contrasti che aveva avuto con loro, perché avevano certi caratterini… Alla fine mi disse, con quel suo accento veneto che ti risucchiava dentro ai libri di Meneghello: “Io quest´anno ho prodotto, oltre al tuo, altri due spettacoli. Tre spettacoli di gente della tua età. Sai che non ne ho capito neanche uno?”. Non lo disse malevolmente. Lo disse come un padre deluso, comprensivo ma inappagato. Il che, dopo due ore di racconti sulla magnificenza dei maestri, a me suonò più o meno così: noi che abbiamo visto la guerra sì che siamo forti, voi che siete cresciuti a nutella ce la mettete tutta, ma in fondo siete un po´ una generazione di mezze seghe. Sono passati più di vent´anni da quella cena, ma la ricordo come fosse adesso, perché io sono stato sempre molto curioso di questa generazione di padri che sono andati in guerra da bambini, ma erano già fortissimi, come Achille che a quindici anni era già “la Bestia”. Quei grandi uomini e le loro avventure hanno nutrito la mia infanzia, li avevo sempre ammirati e, perché no, temuti. Uno spettacolo su Riso amaro, tratto dal film di Giuseppe De Santis con la Mangano che faceva la mondina, era un omaggio, era un ponte che volevo gettare tra la mia generazione e la loro… E lui non aveva capito.
Un´altra volta ci ritrovammo nel foyer di un teatro dopo che avevamo visto uno spettacolo brutto. Lui disse che di spettacoli come quelli dei maestri non se vedevano più. Erano passati pochi mesi dalle Troiane di Thierry Salmon, che secondo me era un capolavoro, e lui l´aveva ospitato nel suo teatro, a Milano. Glielo dissi. E lui per un attimo guardò dentro ai dei suoi occhiali neri, poi disse: “Ah, sì”. “Tutto qui?” “Ah, sì.” Non una parola di più.
Ma dài! Come si fa a crescere sani con dei padri del genere? Se siamo venuti su mezze seghe, sarà un po´ anche colpa loro, o no? I figli bisogna incoraggiarli, rassicurarli, ogni tanto. La ruvidezza dei nostri padri, che per tanto tempo ho scambiato per insensibilità, narcisismo, perfino cinismo, e che certamente era un po´ di tutte queste cose, la ruvidezza dei nostri padri col tempo si è stemperata in un sentimento di comprensione per gli ultimi “severi”, per l´ultima generazione che ha visto il mondo prima del deserto di cenere, prima che scomparissero le lucciole, come diceva Pasolini.
Io sono sempre stato curioso di quando c´erano ancora le lucciole, di com´era il nostro pianeta prima del consumismo. Mi sono sempre piaciuti gli uomini antichi che immagino lo popolassero, e di cui la generazione dei padri custodisce la memoria genetica. Per questo ho fatto spettacoli dai film neorealisti, dai romanzi di Meneghello, per questo ho raccontato del Vajont e di Olivetti, miti della generazione dei padri. Per gettare ponti. Così per tanto tempo mi ha sconcertato quella freddezza da parte loro. Però a ripensarci adesso una cosa devo riconoscerla: al Professore e a certi filibustieri come lui, che poi, per fortuna, non sono neanche tanti, a questi rusteghi che ti fanno le pulci su tutto, che pretendono molto e che alla fine pagano poco e sempre molto in ritardo, io un po´ di gratitudine gliela devo. Perché qualcosa me l´hanno dato. Un´attenzione ruvida, sempre “interessata”, ma concreta, che alla fine mi ha spinto a raccontare le storie che ho raccontato, magari anche solo per fargliela vedere. E col tempo ho anche imparato che la generazione dei padri, nonostante lo abbia sempre negato, ha fatto pedagogia, in quel loro modo burbero, e sempre vergognandosene un po´, ma l´hanno fatta, eccome.

Quell che segue è il testo che Gabriele Vacis ha letto in apertura del suo intervento.

Pompa magna o necessità. In mezzo niente. Girano parole che per un po’ tengono banco. Qualche tempo fa, nei circoli teatrali, uno spettacolo poteva essere “intrigante”, per dire che non era riuscito del tutto, ma aveva un certo non so che. Poi arrivò “forte”. Non nel senso di sei forte, papà! Ma nel senso di duro, denso di significato. Ultimamente va forte l’aggettivo “necessario”. E’ necessario il teatro fatto da non attori. Possono essere barboni o prostitute, extra comunitari, carcerati, animali… Oppure deve raccontare di catastrofi, di mafia, di malattia mentale… Ecco: questo è il teatro necessario. Precisazione: il tono ironico che mi scappa non è canzonatorio. Cioè: a me piacciono molto certi spettacoli necessari. Lo dico anch’io, ogni tanto: questo spettacolo è necessario. Spero addirittura di averne fatto qualcuno. E’ che quando si abusa delle parole mi scappa l’ironia… E parlo molto male di prostitute e detenuti da quanto mi fa schifo chi ne fa dei miti… Quando è moda è moda… Cantava Giorgio Gaber. Ecco: comincio a provare fastidio per certe parole quando diventano moda. E non servono più a distinguere, a precisare. Servono ad omologare. Così c’è in giro molto “teatro necessario”. Più di quello che serve.
E poi c’è la pompa magna. La pompa magna è un carattere del teatro. Grandiosità, sfarzo, magnificenza è quello che vogliamo vedere. La pompa magna è il ricordo di quando la società si rappresentava nel teatro. Dal settecento ad oggi, gli attori stanno sul palcoscenico, ma anche gli spettatori stanno nei palchetti. Da sempre a teatro si va per vedere ma anche per “farsi vedere”. Oggi per farsi vedere si va in televisione, off course, ma la pompa magna, l’esposizione del meglio di sé, è bello che rimanga nel DNA del teatro. Anche qui, però, c’è il rischio dell’abuso. La pompa magna da sola diventa vuota ostentazione. Bisognerebbe che il teatro riuscisse ad essere, insieme, pompa magna e necessità. Qualche volta ci riesce. Ma nel teatro di oggi la pompa magna e la necessità sono i nomi di due circoli abbastanza ristretti che difendono le loro poetiche e le loro abitudini di clan. In fin dei conti quello che difendono è il loro diritto ad esistere fuori dal mercato. Il teatro della pompa magna è in genere prodotto dai teatri stabili pubblici che hanno bilanci enormi rispetto a tutti gli altri. Questo genera due economie: l’economia dello spreco e l’economia della miseria.
Spreco o miseria. In mezzo niente.
L’economia dello spreco mette milioni su spettacoli che vedono in pochi e hanno scarso impatto sul dibattito culturale (a volte non vanno in scena nel totale disinteresse della “società civile”). L’economia della miseria coinvolge tanta gente non pagata, che inventa stratagemmi come seminari, che sono prove mascherate, per ridurre costi di produzione già all’osso.
Tutte e due sono economie surreali. Non hanno alcun rapporto costo beneficio. Il teatro, per definizione, è fuori del mercato. Ci ha messo tanti anni ad accettare questa verità senza umiliazione. Non è riproducibile, e quindi difficilmente mercificabile. In un mondo dominato dal mercato questo è un valore. E’ un valore perché, senza l’assillo del profitto si può fare ricerca, innovazione. La ricerca e l’innovazione devono svolgersi nel raccoglimento e nella concentrazione dei piccoli numeri. Ma poi i risultati della ricerca devono essere proiettati nel mondo. E perché il mondo ti ascolti devi essere autorevole e farti capire. Questione di equilibrio. La nuova presidente del Teatro Stabile, Evelina Christillin, ha esordito con una parola: eccellenza. Bello. Il teatro della città dovrebbe perseguire l’eccellenza. Ma cos’è l’eccellenza? La Christillin lo sa bene perché è una delle persone che hanno fatto il miracolo olimpico. Le Olimpiadi hanno fatto il botto perché hanno coniugato lo show mondiale e il genius loci, perché hanno messo insieme grandi artisti e migliaia di volontari, perché hanno trovato l’equilibrio tra la pompa magna e la necessità, tra lo spreco e la miseria. L’eccellenza è soprattutto equilibrio. Chissà che dopo il miracolo olimpico, ad Evelina Christillin e al suo nuovo consiglio d’amministrazione, non riesca anche il miracolo teatrale. Buon lavoro.
(Gabriele Vacis, 9 settembre 2007)

Gabriele_Vacis

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