Una drammaturgia della realtà?

Alcuni spettacoli estivi: sogni, gesti, documenti, fatti, leggi, identità...

Pubblicato il 08/03/2012 / di / ateatro n. 140

Spettacolo dopo spettacolo, performance dopo performance, laboratorio dopo laboratorio, Virgilio Sieni sta costruendo una poetica del movimento. Da un lato, ha innestato nel mondo chiuso della danza, e nel suo linguaggio rigidamente formalizzato, elementi presi dall’esterno: gesti rubati alla vita quotidiana e ai suoi rituali, al lavoro (alle diverse professioni), alle opere d’arte.… Ha esplorato e distillato la gestualità delle varie età dell’uomo (i bambini, i vecchi), di maschi e femmine, dei diversamente abili (per esempio i ragazzi non vedenti di Damasco Corner)…
E’ un percorso potenzialmente infinito, che compila una moderna enciclopedia del gesto. L’operazione di Sieni ha avuto come primo obiettivo quello di rivitalizzare la danza attraverso quelle che sono “iniezioni di realtà”, con una modalità tipica di molte esperienze artistiche novecentesche. Ma c’è anche un rovescio della medaglia. Perché il singolo gesto, astratto dal suo contesto e dunque redento dalla fragilità e dell’effimero e dalla banalità del quotidiano, assume immediatamente un valore estetico. Il senso della bellezza, sembra promettere Sieni, può salvarci. E tuttavia, nel momento in cui questo frammento di realtà diventa un emblema di bellezza, astratto dal flusso naturale del tempo e incastonato in una forma che segue altre regole, tradisce una differenza, uno scarto. E’ qui che si inserisce la poetica del perturbante praticata sistematicamente da Sieni, che a questa trama di gesti rubati alla vita intreccia un immaginario nutrito di fiabe e miti (insomma, dal vocabolario degli archetipi), e magari dal sogno.

Foto di Virgilio Sieni.

E proprio Sogni si intitola il nuovo lavoro che Sieni ha presentato all’ultima edizione del Festival di Santarcangelo, in quattro visioni disseminate in altrettante aule della Scuola Elementare che si affaccia su Piazza Ganganelli. Più delle visioni oniriche, affidate a un gruppo di bambini e adolescenti che paiono “animare” i sogni dei dormienti, ad affascinare sono proprio i gesti di questi ultimi, apparentemente immersi nel sonno. Nella “realtà”, i gesti dei dormenti sono totalmente involontari, inconsapevoli, incontrollati, mentre qui sono inevitabilmente “recitati”, interpretati – anche se imitano l’abbandono della perdita di coscienza. (Francis Bacon amava dipingere i suoi modelli mentre dormivano, in sessioni lunghissime, estenuanti, a cogliere nell’abbandono del sonno, nella sua vulnerabile nudità, l’anima attraverso – o oltre – il corpo.)

Foto di Ilaria Scarpa.

Quello esemplificato da Sogni, come fase radicale del lavoro di Sieni, è un sottile paradosso: inserire schegge di realtà nel gioco fittizio e formalizzato del teatro non porta necessariamente alla reinvenzione della realtà, a una forma di rappresentazione, ma può innescare una deriva dell’immaginario, aprendo crepe da cui tracima il fantastico. Anche se, di fronte al “teatro del sogno” (o del sonno…) ricreato da Sieni, non sapremo mai qual è il rapporto tra le apparizioni che scorrono davanti a noi spettatori e le visioni che abitano il sonno dei quattro abitanti di queste stanze misteriose. Se davvero quelle presenze infantili siano quello che sognano i sognatori, e se davvero siano queste presenze a inseminare le visioni dei dormienti con la loro immagine e i loro tocchi.

Il rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione – e al tempo stesso tra la sfera pubblica e quella privata – è il perno intorno a cui è costruito Schubladen (ovvero Cassetti) del collettivo tedesco She She Pop, visto a Santarcangelo. La realtà assume in questo caso la sua forma più “pesante” e ricca di senso: al centro del lavoro è infatti la Storia, quella con la S maiuscola, e in particolare uno degli eventi più significativi degli ultimi decenni, la caduta del muro e la riunificazione tedesca.

Vissuto però non delle cronache dei telegiornali o dalle ricostruzioni degli studiosi, da sei donne, nella loro memoria, nella loro esperienza, nei loro sentimenti. In scena ci solo solo tre tavolini, ai lati opposti di ciascuno di essi sono sedute due donne: una – scopriremo – è nata e crescita all’Ovest, l’altra all’Est. A coppie, si interrogano e si confessano, con rapidi scambi di domande e risposte, come in una interrogazione scolastica o in una indagine di mercato. Ricorrono alle loro vicende personali, appoggiandosi spesso a un libro (ci sono molti libri, in questi cassetti e scaffali…), canzoni (molte irresistibili, a cominciare da diverse sigle di telefilm d’annata), ritagli di giornale, fotografie, oggetti, recuperati appunto dai cassetti. Sono brandelli di realtà che hanno la forza – o forse l’arroganza – del documento, e che costituiscono la prova a sostegno del ricordo personale.

L’obiettivo del “metodo She She Pop” è la costruzione (o ricostruzione) dell’identità, personale e collettiva. E qui “collettivo” assume diverse connotazioni: identità tedesca e identità delle due Germanie (con tutte le implicazioni ideologiche del caso, nel derby capitalismo-comunismo), identità femminile (con qualche venatura femminista, contemperata però da una godibile autoironia), identità generazionale (il rapporto con le madri e quello con le figlie)… Non mancano quelle che in un libro sarebbero le “note al piede”: quando una delle protagoniste usa un termine, o un riferimento, che rischia di apparire oscuro o datato, l’altra le chiede di spiegarlo, in un breve “a parte”.
Il lavoro di documentazione deve essere stato davvero poderoso, vista la ricchezza, profondità e varietà degli squarci che aprono questi “cassetti” della storia. Progressivamente, frammento dopo frammento, ricordo dopo ricordo, emerge il disegno di sei vite, di sei esistenze più o meno profondamente cambiate da questo evento epocale (che certamente ha segnato di più le ragazze dell’Est, che avvertono un senso di perdita, anche se non certo rimpianto). Le sei donne si raccontano, e compongono altrettanti “mini-romanzi di formazione”. Alla fine di due ore fitte fitte, che restituiscono la loro realtà in tutta la sua ambigua e affascinante ricchezza, non si costruisce un racconto, una storia.
Volendo recuperare una categoria assai in voga, quello di She She Pop pare più un teatro “pre-drammatico” che un teatro “post-drammatico”: una drammaturgia che riesce a restituire la ricchezza del reale, ma che preferisce non assumersi la responsabilità di individuare un destino. Infatti lo spettacolo – come i Sogni di Sieni – potrebbe andare avanti all’infinito, aggiungendo particolari su particolari, ricordi dopo ricordi, sottofinali su sottofinali, quasi a inglobare l’intera esistenza, nel desiderio di svuotare tutti i Schubladen della realtà per risistemarli negli Schubladen dello spettacolo.

Ci sono i documenti e ci sono i fatti. Fatti, come quelli allineati e catalogati con ossessiva precisione, colti nella loro nuda oggettività, da Janina Turek, una donna di Cracovia che per oltre cinquant’anni ha annotato maniacalmente, in 748 diari, “i dati” della sua vita: le telefonate fatte e ricevute (38.196), gli incontri casuali (23.397), gli appuntamenti (1.922), i regali, debitamente descritti (5.817), le partite di domino (19), gli spettacoli visti a teatro (110), i programmi televisivi (70.042).

A trovare le prove di questa sorprendente epopea del quotidiano era stata, alla morte di Janina, sua figlia, che ignorava del tutto l’attività materna. A raccontare la vicenda, il reportage del giornalista Mariusz Szczygieł, Reality (pubblicato in Italia nel 2011 da Nottetempo, traduzione di Marzena Borejczuk).
Anche questo verbale esistenziale – redatto solo per sé, senza un destinatario, un potenziale lettore – è potenzialmente infinito, visto che è sempre possibile scomporre ulteriormente il flusso degli eventi, e sminuzzare i fatti in ulteriori “sotto-fatti”, e classificarli altrimenti. Ma proprio per la sua puntigliosità, e per l’inevitabile arbitrarietà delle categorie in cui vengono incasellati i fatti, questo diario assume immediatamente una venatura d’assurdo e finisce per suscitare una inevitabile ironia.

Parrebbe impossibile ricavare uno spettacolo teatrale da un materiale di questo genere. Invece Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, autori e interpreti di Reality (che dopo il debutto a Castiglioncello-Inequilibrio sono passati a Milano, nel cartellone di “Da vicino nessuno è normale”), riescono a trasmettere il senso dell’esperienza di Janina: giocando con l’allusione e la ripetizione (la scena iniziale, con la morte della protagonista narratrice), e soprattutto una sottile ironia, sia nella riduzione sia in una recitazione spesso “in levare”. Fino alla provocazione finale, quando si insinua il dubbio che la delirante tassonomia di Reality sia solo una invenzione. Non sono i fatti, forse è solo teatro…

Se la realtà, come ci ripetono quotidianamente i “tecnici” e i mass media, è dominata dalle leggi dell’economia – che sono “oggettive”, e dunque indiscutibili – che cosa succede se si impone la legge del mercato anche al rapporto attore-spettatore? E’ chiaro che anche lo spettacolo dal vivo è un settore dell’economia, ma di solito, una volta pagato il biglietto, è come se queste leggi venissero sospese (e infatti il costo del biglietto viene restituito solo le lo spettacolo non va in scena…).

Il duo formato da Laura Kalauz e Martin Schick (coreografi e performer con base a Zurigo) si è divertito a infrangere programmaticamente questa sorta di tabù, con il loro CMMN SNS PRJCT (che sta più o meno per prgtt bon snso). All’inizio Kalauz e Schick sono svestiti, e distribuiscono al pubblico decine di oggetti esposti come i premi una lotteria, razziati probabilmente nei discount di Santarcangelo: un’anguria, un phon, uno stendino per la biancheria, un flacone di detersivo, giocattoli vari… Poi chiedono agli spettatori di aiutarsi a mettere assieme il costume di scena (per alcuni indumenti sono disposti a pagare una sorta di noleggio). Parte una sgangherata lotteria: per aggiudicarsi un biglietto, lo spettatore deve indovinare il romanzo (o testo teatrale, o film) da cui è tratta la scenetta interpretata con verve dal duo. Il clou dello spettacolo è un’asta: lo spettatore che offre di più si aggiudica – sulla base di una licenza Creative Commons – il diritto di rappresentare CMMN SNS PRJCT e dunque di mettere a sua volta all’asta i diritti di rappresentazione, in una specie di catena di Sant’Antonio.
Il coinvolgimento dello spettatore esplora così, in uno sgangherato cabaret, le varie forme di scambio economico, dal dono al baratto, dall’asta alla lotteria. Fino al furto, quando Martin Schick accusa uno degli spettatori di avergli rubato una sua proprietà.

La provocazione funziona, con momenti di reale divertimento (e coinvolgimento), perché il gioco è intelligente e godibile, ma alla fine resta – appunto – un gioco. Anche in questo caso lo show finisce per allungarsi e sfrangiarsi, forse in un’ansia di completezza, mentre le gag e le battute si fanno via via più stanche.

La rappresentazione della realtà nella sua forma più degradata, quella della comicità da cabaret televisivo – è invece il bersaglio del Tabarin Ciatidn che Menoventi ha allestito in una serata unica al dancing Trestelle in un sabato sera di luglio per il Festival di Santarcangelo.

E’ una girandola di luoghi comuni, in uno show che allinea attrazioni volutamente sgangherate, intorno a una patetica presentatrice (Rita Felicetti) costretta a ubriacarsi in scena. Ma la provocazione non scatta, nemmeno quando un gruppo di fantasmi inizia a insultare il pubblico del festival, forse troppo beneducato, o masochista, o irrimediabilmente passivo come di fronte a un varietà televisivo. Alla fine, tra noia e disagio, resta l’immagine di Chiara Verzola (nello show l’animatrice che propone attività improbabili, tipo “Giochiamo a Un-due-tre stella”) che sputa ripetutamente sulla disarmata Rita Felicetti.

Gli sputi di Chara Verzola su Rita Felichetti.

In tempi di crisi, come quello che stiamo vivendo, ci interroghiamo sul nostro rapporto con la realtà. Non è un caso che in questo momento il dibattito sulla realtà in filosofia abbia ripreso vigore, con la polemica tra il post-moderno Gianni Vattimo e il neorealista (un po’ ingenuo) Maurizio Ferraris.
Sappiamo che il teatro è da sempre uno degli strumenti più efficaci e creativi per affrontare l’impresa. Non sorprende dunque che siamo numerosi gli spettacoli che lavorano sulla frizione della scena con la realtà, e più specificamente sul modo in cui il reale può diventare materia di spettacolo (una questione di metodo, o di tecnica drammaturgica), e su come attraverso questa trasformazione possa acquisire senso.
Un altro snodo strettamente correlato a questo riguarda il rapporto tra l’attore e il personaggio, ovvero la riflessione su un’identità sempre più frammentata, plurale e stratificata.

L’approccio di Richard Maxwell, con il suo ciclo Ads, è volutamente minimalista: il drammaturgo americano chiede semplicemente a una serie di individui (in questo caso una trentina di persone che vivono a Santarcangelo e dintorni) di esprimere in pochi minuti quello in cui credono, salendo sullo spazio pubblico della scena. Insomma, una specie di spot autopromozionale, dove lo spazio per la finzione è in apparenza ridotto al minimo, e dove anzi si privilegia l’autenticità dei propositi e dell’enunciazione.

Nell’installazione minimalista vista a Santarcangelo, al Teatrino della Collegiata, le varie figure si susseguono in una rappresentazione tridimensionale sul palco vuoto, come fantasmi o simulacri di persone reali. In realtà, non appena sale sulla scena la persona diventa immediatamente personaggio, con le sue ingenuità e le sue illusioni, l’ostentata umiltà o la bombastica sicumera, le elucubrazioni mentali o le banalità più o meno condivisibili, ma anche l’abbigliamento e i tic linguistici.
Il compito è apparentemente facile (“Dimmi ciò in cui credi”) ma in realtà è molto arduo: ed è fin troppo facile, dicendo la propria verità, apparire buffi, e al limite diventare una maschera…

Ronconi è un regista della crisi: crisi di un teatro che deve legittimare la propria necessità e ridefinire il proprio linguaggio, crisi di una società che nel teatro – questo suo specchio necessario – fatica a riconoscersi e ritrovarsi. A Spoleto ha portato una folgorante dimostrazione di lavoro, che ha concluso le tre sessioni di lavoro estivo, nel suo eremo umbro del Centro Teatrale Santacristina, con alcuni allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico. Al centro di questo esperimento, i Sei personaggi pirandelliani, ma radicalmente sfrondati a poche scene chiave.

Luca Ronconi prova Pirandello a Santacristina.

Nel misurarsi con il testo più emblematico del drammaturgo siciliano, Ronconi fa piazza pulita di tutti i “pirandellismi”: il gioco del teatro nel teatro, gli arzigogoli filosofici, i vezzi degli attori e dei capocomici, l’ansia di verosimiglianza (insomma, la rappresentazione). Con il suo amore per il paradosso, salva invece le vicende dei personaggi – quelli che irrompono a turbare le prove della compagnia con la loro urgenza di essere “raccontati”.
Ma chi sono questi personaggi? Qual è la loro identità? Come il capocomico pirandelliano, Ronconi decide di ascoltarli, e lascia che occupino la scena. I “sei personaggi” entrano nell’ampio stanzone bianco dove si sono racconti attori e spettatori come fantasmi, o come zombi che strisciano addossati alle pareti, forme vuote, non ancora riempite dalla pienezza della vita, incerte del loro status, e insieme segnate da una rabbiosa inquietudine.

Pirandello riletto da Ronconi a Spoleto.

A Ronconi non servono più attori che rendano “credibili” (insomma, realistiche, o almeno verosimili) la vicenda e i sentimenti dei personaggi: “Da quando la realtà virtuale fa parte della nostra vita, la contrapposizione tra quello che è reale e quello è immaginario ha perso significato e i personaggi non possono che apparirci ossessioni mentali, chimere che sono nel cervello dell’autore. Ed è penoso sentirsi prigionieri del cervello degli altri. Ecco il loro dramma”. Quello che offre è dunque la dinamica di sentimenti ed emozioni, magari carichi di inquietudine e angoscia, di creature prigioniere di un sogno – o di un incubo – altrui.
Alla fine, il meccanismo funziona: anche per la bravura degli attori, a cominciare dalla terrificante figliastra di Lucrezia Guidone, che assurge al ruolo di protagonista, con le sue volgarità, le sue sguaiataggini, la sua irrimediabile disperazione. Fino a scaricare sul suo personaggio la responsabilità della tragedia: come in un film dell’orrore, sarà lei ad affogare la testa della sorellina in un secchio d’acqua, e ad accompagnare la mano del fratellino verso il revolver con cui si toglierà la vita.

Una delle grandi forze del lavoro di Armando Punzo è da sempre l'”effetto di realtà” dei suoi attori – carcerati condannati a lunghe pene in carceri di massima sicurezza – e dello spazio che da venticinque anni ospita una delle più straordinarie esperienze teatrali in atto, il carcere di Volterra. Per gli spettatori il rito d’ingresso – la verifica dell’identità, la consegna di documenti, telefonini e altri bagagli, il passaggio attraverso i metal detector e le porte metalliche, l’attesa nel cortile assolato – ha la forza di un rito di passaggio, dove la convenzione (“Stiamo andando ad assistere a uno spettacolo”, dove tutto per definizione deve essere finto) viene destabilizzata dal contesto: un vero carcere, con vere celle dove esseri umani vivono in condizioni disumane.

La realtà compressa della cella e del carcere produce un sovraccarico di energia, sia dal punto di vista degli interpreti, sia dal punto di vista delle invenzioni teatrali, sia dal punto di vista dell’impatto politico. E questa energia esplode da venticinque anni nei lavori che Punzo presenta a Volterra, e costituiscono uno dei momenti alti dell’estate teatrale.
Quest’anno l’energia accumulata in un quarto di secolo si è disseminata, uscendo fuori dal carcere, prima con una serie di laboratori-spettacolo che hanno interessato diverse città italiane, e poi in una serie di azioni di strada e di piazza – con una modalità d’intervento che ricorda il Bread & Puppett – che hanno animato prima i borghi di Montecatini e Pomarance, e poi in un gran finale la stessa Volterra. E’ come se il lavoro di Punzo, germinato da un eccesso di realtà, dopo il suo volo fantastico attraverso gli spettacoli volesse tornare a investire la realtà: non più quella concentrazionaria della galera, ma quella dell’intera società, con cui confrontarsi e in cui, forse, perdersi.
E’ una svolta che riprende e approfondisce uno spettacolo “a stazioni” come il travolgente Hamlice (una sorta di “Amleto nel paese delle meraviglie”), portato lo scorso anno in tournée, in grado di invadere spazi molto ampi, coinvolgendo e animando con una sequenza di azioni performative e figure fantastiche diverse centinaia di spettatori. Per un altro aspetto Mercuzio non vuole morire implica però una svolta radicale: cambia infatti decisamente il ruolo di Armando Punzo, che non è più solo il regista – e magari l’animatore in scena alla Kantor – ma assume un ruolo centrale anche come personaggio.

Armando Punzo è Mercuzio.

L’ipotesi drammaturgica con cui ha affrontato Romeo e Giulietta pone al centro dello spettacolo la figura di Mercuzio – la vittima del primo delitto, quello che scatena la faida tra Montecchi e Capuleti – e il coro dei cittadini. Quasi inevitabilmente – malgrado il moltiplicarsi e replicarsi delle figure – Punzo assume su di sé anche il ruolo del poeta, sognatore e utopista intorno al quale ruota lo spettacolo. Se prima Punzo era l’animatore, lo sciamano e il punto d’equilibrio esterno (o liminale) tra le varie spinte che contribuivano alla realizzazione dell’evento, ora si assume in pieno la responsabilità dell’evento, e della sua volontà di resistenza a questi tempi oscuri… Forse, questa concentrazione dello sguardo sul personale è il sintomo di una crisi personale (o del gruppo) affrontata e superata attraverso questa specie di sacrificio mancato, di rifiuto del dramma e della tragedia, perché Mercuzio non deve morire.
L’inno alla libertà creativa e il richiamo alla necessità della cultura, la centralità della bellezza che hanno l’emblema in Mercuzio trovano una oggettivazione nella scena finale dello spettacolo tra le mura del carcere: a ogni spettatore viene consegnato un libro – in questa biblioteca teatrale figurano tra l’altro numerose copie dei “Maestri del Colore”, con le loro riproduzioni dei capolavori della pittura; anche gli attori hanno un libro aperto, da cui hanno appena letto qualche passo; a quel punto Punzo-Mercuzio invita attori e spettatori a unirsi, tutti insieme, al grido “Non voglio morire!”. Insomma, uno spettacolo – o meglio, una scena – senza spettatori, dove tutti diventano attori (con l’eccezione delle telecamere e delle macchine fotografiche che devono documentare l’evento: che è “piccolo”, con poche decine di persone coinvolte, ma che ha ovviamente una valenza simbolica molto maggiore, e che viene giustamente amplificata dai media).

Mercuzio non deve morire nel cortile della Fortezza.

Dopo lo spettacolo vero e proprio, tra le mura del carcere, l’evento invade la città, la stessa città che appena prima aveva invaso il cortile della Fortezza, nella forma di una scenografia fatta di quinte con le fotografie in scala 1:1 di piazza dei Priori.

Nella cornice più controllata di Pomarance è possibile cogliere meglio la logica delle mini-pièce ideate dai collaboratori scelti da Armando Punzo, a metà tra la citazione e il déja-vu: gli abitanti del paese – o della Verona shakespeariana – che raccontano le loro vicende; le coppie di Mercuzio armati di spade, in duello con il proprio doppio; la impressionante processione dei cittadini con la mano insanguinata levata verso il cielo, rossa di sangue; la sfilata delle coppie degli innamorati, ogni volto incorniciato come in una fotografia da mettere sulla tomba; il corteo dei Mercuzio, con il volto incorniciato da un teatrino-televisore con la didascalia “Io sono l’ultimo poeta. Ve ne siete accorti?”; la danza, con mucchi di valigie e scarpe, di chi parte per l’esilio le Giuliette stese a terra immobili, apparentemente morte, come nella scena della cripta; la piazza che si riempie di gente che legge una pagina dal “libro della vita” che tiene aperto davanti a sé, in una sinfonia labirintica di voci. Fino alla gran festa carnevalesca finale (che nel testo di Shakespeare è in realtà il punto di partenza della tragedia), animata da deejay e canzoni vintage…
Le stesse azioni, nella domenica pomeriggio di Volterra, si perdono invece nel flusso dei turisti e degli abitanti, in una sorta di bagno di realtà in cui diventa più difficile distinguere la finzione dalla realtà, il sogno dalla veglia, l’invenzione fantastica dalla quotidianità.
Non è l’unico paradosso, in questo accorato appello a favore della cultura e della sua bellezza. Entrando nel cortile che ospitava, gli spettatori venano colpiti da un altro effetto di realtà, doppiamente straniante: perché dalle celle che sovrastano la scena uscivano i rumori della vita quotidiana dei detenuti, indifferenti a quanto stava accadendo lì sotto, le loro chiacchiere, e le voci dei televisori e delle radio di un sabato pomeriggio dove imperversano le Olimpiadi.

Foto di Massimo Marino.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2012-03-08T00:00:00




Tag: Armando Punzo (11), Compagnia della Fortezza (9), drammaturgia (37), Luca Ronconi (73), menoventi (3), Virgilio Sieni (11)


Scrivi un commento