Lo spettatore pensa di non capire ma a sua insaputa danza
Teatro, semiotica, pedagogia in università
Il dibattito su teatro e semiotica è stato riaperto di recente, dopo una lunga separazione, dalla rivista “Culture Teatrali”, che dal 2009 ha ospitato una serie di interviste a critici teatrali e semiologi per riesaminare a distanza di tempo la stagione della “semiotica del teatro” rievocandone le ragioni, i risultati e gli insuccessi. Alcune osservazioni ricorrenti focalizzano i punti principali di questa relazione teorica negli anni Sessanta-Ottanta. Prima di tutto, la semiotica è stata uno strumento essenziale di giustificazione teorica del passaggio dalla centralità del testo scritto alla centralità dello “spettacolo in scena” come oggetto di analisi, così come ha collaborato al superamento concreto dei codici teatrali tradizionali a favore del teatro di sperimentazione e basato sulla dimensione corporea. Basti ricordare, a conferma di questa osservazione, che una scuola di semiotica del teatro in gran parte italiana già negli anni Settanta-Ottanta (cfr. Bettetini-De Marinis 1977, Ruffini 1978, Serpieri 1977) esaminava il “testo drammatico” (il testo scritto) come una sola tra le componenti dell’autentico testo spettacolare, consistente in ciò che accade in scena, la cui funzione è considerata quella di costituire una serie di istruzioni di partenza per l’effettiva realizzazione di un testo spettacolare (De Marinis 1982:24-59). Il testo spettacolare era inteso, in questa prospettiva, come un macro-atto comunicativo dotato di una molteplicità di codici e convenzioni che riguardano tutto ciò che è presente in scena (dalle luci alla disposizione degli spettatori nell’ambiente scenico), basato su una fondamentale dimensione pragmatica che finisce per costituirlo come un macro-atto linguistico nei termini della teoria degli speech-acts (cfr De Marinis 1982 e 1988:15-33 e 91-95).
In secondo luogo, il ruolo attivo della semiotica nei confronti del teatro si è chiuso perché in ambito teatrale ha continuato a essere una semiotica dei codici, dei segni e dei messaggi, che classificava i segni presenti in scena e le interazioni tra codici, anziché trasformarsi in disciplina in grado di spiegare i processi profondi di significazione, cioè i processi con cui lo spettatore attribuisce senso a ciò che accade nello spazio scenico, spesso insieme a lui anziché di fronte a lui. La maggior parte degli intervistati d’altronde, eccetto i semiologi universitari, sembra avere idee imprecise su cos’è la semiotica, o la identifica proprio con la “vecchia” scienza dei segni e dei messaggi, che è stata superata in realtà dagli anni Ottanta e che oggi si rivede solo come momento storico fondativo. Anche i principali testi di riferimento risalgono a questa impostazione. Elam (The Semiotics of theatre and drama, 1980) esamina il teatro come opera letteraria e i modi della messa in scena del testo letterario. Ubersfeld (Lire le théâtre II. L’école du spectateur, 1996) descrive lo spettacolo come un insieme di codici indipendenti (del regista, dell’autore, delle luci, della musica eccetera) che si uniscono in scena. Pavis (L’analyse des spectacles, 1996) esamina il rapporto tra testo scritto e lavoro degli attori e del regista.
Altra questione ricorrente è come documentare lo spettacolo in quanto oggetto da esaminare, cioè come fissare lo spettacolo in quanto oggetto stabile d’analisi, testo dato. Non solo lo spettacolo cambia ogni singola volta che viene rappresentato, ma non si sa comunque come fissare ognuna di queste singole e diverse rappresentazioni in modo adeguato, che “renda” cos’è lo spettacolo, posto che il sistema di documentazione più usato, la video-registrazione, è una trasposizione infedele che rende solo parte dello spettacolo. Se è pur vero, come ricorda Volli (2009), che in semiotica si considera ogni “testo” d’analisi come risultato di un taglio arbitrario e soggettivo della materia osservabile da parte dell’analista, o la selezione di un segmento di processo scelto per la sua conformità agli interessi dello studioso, questa instabilità e relatività costitutiva del “testo” dello spettacolo rende difficile giustificare l’interesse generale e la pretesa di autenticità di uno studio semiotico su un singolo spettacolo. È osservazione ricorrente, infine, che le nozioni di teatro e teatralità, e la distinzione tra teatro, danza, narrazione, performance, e altre forme di spettacolo o di intrattenimento, sono categorie instabili e relative, molto diverse per aree geografiche, tradizioni, sistemi artistici e culturali, al punto che la descrizione più accettata della teatralità la pensa come un sistema di aspettative socio-culturali di fruizione.
Complessivamente la relazione tra teatro e semiotica è presentata come datata, relativa a un momento culturale superato, soggetta a difficoltà insormontabili, e priva di prospettive. Dal 2007 siamo ritornati a occuparcene nel corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Genova (con sede a Savona), introducendo il teatro nei corsi di Semiotica con l’obiettivo di presentare agli studenti l’analisi semiotica del teatro aggiornata ai principi più recenti. Abbiamo così tra l’altro risposto ad alcune delle osservazioni appena riportate. Il metodo di documentazione dello spettacolo e di fissazione del testo per la sua analisi, prima di tutto. Abbiamo seguito un metodo in tre fasi:
(a) metodo di osservazione partecipante al processo di lavoro di preparazione dello spettacolo (osservare in praesentia il lavoro di preparazione);
(b) visione ripetuta molte volte dello spettacolo in situazioni reali, in luoghi diversi e con pubblici diversi (anche per osservare e fissare così le aree dello spettacolo con maggiori invarianti e le aree con più varianti);
(c) scrittura di note di osservazione durante e subito dopo lo spettacolo: note proprie e appunti manoscritti, che sono una combinazione di osservazione diretta e interpretazione, cioè osservazione già interpretata.
Confrontando la descrizione così ottenuta dello spettacolo con altre forme (fotografie, ripresa video, spiegazione di attori e regista, ecetera) risulta evidente che è questa la resa migliore dello spettacolo, assai più di riprese e immagini, che possono comunque accompagnarsi per restituire l’atmosfera.
Perché dunque semiotica e teatro oggi? Prima di tutto perché la semiotica oggi è profondamente cambiata rispetto agli anni Sessanta e Ottanta. Agli studi di semiotica teatrale, fermi agli anni Ottanta, manca il dibattito più recente sui limiti, le oscillazioni e i vincoli dell’interpretazione del testo, nonché la sua applicazione alla percezione, cioè al rapporto tra un soggetto che percepisce e la materia percepita (cfr. Eco 1990, 1997, 2007). Manca, in sostanza, la semiotica come analisi dei processi di interpretazione di un “testo” da parte di un soggetto che percepisce, basata sul presupposto che il senso e il significato di ciò che si osserva scaturiscano da un lavoro di attribuzione di significato compiuto dall’osservatore o spettatore, anziché da una natura segnica dell’oggetto osservato o da un codice automaticamente innestato (cfr. Eco 1984, 1997, 2003, 2005). In base a questi principi, il punto focale della semiotica del teatro diventa l’analisi dei modi in cui lo spettatore attribuisce senso e significato a ciò che vede, osserva, percepisce, con processi non stabiliti a priori. Ci siamo dunque chiesti cosa cambiasse con l’introduzione di questa teorizzazione nell’analisi effettiva del teatro.
In secondo luogo il teatro costituisce un ottimo campo di osservazione per una semiotica applicata a processi in corso di svolgimento come propri testi, anziché a oggetti finiti (come un testo letterario o visivo). È la semiotica che abbiamo inaugurato, con l’analisi di processi quali gli interventi sul terreno della cooperazione internazionale e le pratiche sociali di “obiezione al consumo” costituite dalla formazione di sistemi di produzione e di distribuzione di beni in circuiti alternativi al sistema commerciale e di mercato (come i G.A.S., Gruppi di Acquisto Solidale, o i Distretti dell’Economia Solidale). Uno spettacolo teatrale è in questa chiave un caso esemplare di processo in corso, di testualità instabile e continuamente rinnovata.
Una terza ragione è la risposta alla tendenza al ritorno al testo letterario o verbale come fulcro del teatro, che ha avuto di recente molta fortuna, riducendo l’importanza della dimensione fisica e corporea del teatro.
Quarta ragione: la semiotica sembra la disciplina adatta a spiegare i meccanismi della ricezione teatrale, i meccanismi interpretativi con cui lo spettatore dà senso a ciò che vede e all’evento a cui partecipa, i meccanismi cioè con cui lo spettacolo prende vita e si fa reale. È cioè la disciplina che meglio esamina il ruolo costitutivo della partecipazione dello spettatore nel dare vita al fatto teatrale.
Quinta ragione infine è l’inscrizione in un quadro pedagogico volto a riportare l’attenzione degli studenti al valore di senso delle esperienze condotte in condizioni di presenza fisica reale, il cui significato scaturisce dall’impatto con la materia fisica, liberandoli dalle mitologie della vulgata elettronico-digitale. Il teatro è stato infatti inteso come esperienza per eccellenza il cui senso scaturisce dalla centralità della materia fisica che ne costituisce l’essenza, il corpo fisico dell’attore in azione in scena. La domanda sull’impatto della materia fisica come fonte di esperienza ha così avuto senso anche in quanto inserita in un tracciato didattico, nel quale la consapevolezza dell’entità della domanda posta era accompagnata da una progressiva acquisizione degli elementi stessi necessari a porsi la domanda: la conoscenza della semiotica, del teatro (di questo teatro), del valore unico dell’esperienza in condizioni di presenza fisica oggettiva del dato di esperienza.
Per il nostro studio abbiamo utilizzato soprattutto la ricerca dell’Antropologia Teatrale e dunque il lavoro dell’Odin Teatret e di Eugenio Barba e le sessioni dell’ISTA, tramite l’osservazione di diversi spettacoli e della preparazione tra 2010 e 2011 dello spettacolo La vita cronica, che è poi stato visto più volte in situazioni distinte. Tra gli altri spettacoli abbiamo utilizzato Il castello di Holstebro, Grandi città sotto la luna, Ode al progresso. Del gruppo Àrhat Teatro di Bergamo, che ha collaborato al corso nel 2007/08, abbiamo utilizzato il seminario “Il corpo presente”, in cui ha presentato le tecniche della presenza corporea a partire dall’esperienza dell’Odin Teatret e dell’Antropologia Teatrale, e lo spettacolo Fiori, presentato nella biblioteca del Campus, in cui si poteva osservare il lavoro dell’attore nella sua effettiva dimensione di scena. Nel 2008/09 sono intervenuti nel corso Pippo Delbono e l’attore e regista Mandiaye N’Diaye del Teatro delle Albe di Ravenna, fondatore tra l’altro nel 2002 in Senegal di un progetto di sviluppo cooperativo incentrato sul teatro: l’istituzione di un centro di ricerca teatrale nel villaggio di Dioll Kadd, che produce lo spettacolo Ubu buur, il primo Ubu roi africano, porta a tournée in Senegal e in Italia, richiama giovani del paese emigrati nella capitale Dakar, e investe localmente i proventi del lavoro teatrale organizzando un progetto organico di sviluppo agricolo e artigianale, gestito dalla cooperativa Takkuligey, che rivitalizza la regione. Questa esperienza ci ha permesso di accostare direttamente il tema teatrale al tema della cooperazione internazionale. Il Teatro a Canone di Chivasso (Torino) ha mostrato nel 2010/11 frammenti di spettacoli e diverse tecniche di training, azione in scena, e preparazione di spettacoli, utilizzando come spettacolo campione Soave sia il vento, uno spettacolo sulla “follia” preparato unendo elementi di diversa provenienza: letterari (Amleto), testimonianze dirette (racconti di ricoverati in un istituto psichitrico trentino), indirette (racconti dei parenti), esperienziali (fatti accaduti lavorando con i ricoverati). A questi interventi principali si sono accostati laboratori tenuti dalla regista Selene D’Agostino, uno studio di Laura Rocco sul lavoro teatrale di Peter Schumann e del Bread and Puppets Theatre, interventi dell’Associazione Artu di Genova, che organizza la rassegna di danza “Corpi urbani”, e del Teatro degli Evasi della Spezia. Nel 2011/12 e 2012/13 abbiamo seguito l’evoluzione dei festival Magdalena Project e Transit, che ci hanno permesso di elaborare un modello paradigmatico di intervento sociale contemporaneo i cui tratti sono comuni alle comunità teatrali, alla cooperazione internazionale, e ai movimenti sociali attuali che discutono del rapporto tra sviluppo e benessere.
Il lavoro dello spettatore risulta dunque l’asse centrale dell’indagine sul funzionamento dello spettacolo teatrale, ma ad esso abbiamo associato, partendo dall’antropologia teatrale e dalla nozione di training, il principio dell’uso sapiente del corpo. Scopo infatti del training e della formazione dell’attore è l’acquisizione di una tecnica di “uso sapiente” della materia organica del proprio corpo fisico per dotarlo della “presenza scenica”, una particolare qualità di presenza dell’attore con fisicità piena, che lo spettatore percepisce come “energia irradiata” (Barba 1993). L’uso sapiente del corpo si basa sul principio che il corpo, in quanto materia organica dotata di sue proprietà e caratteristiche, è il materiale plastico di cui fare uso per ottenere interesse estetico, ovvero effetti di tensione, densità, attenzione. È cioè il materiale specifico di lavoro di cui fa uso l’attore per realizzare la funzione poetica, il gioco con le proprietà fisiche del materiale specifico di un’arte per suscitare piacere estetico (il suono per la poesia, forme e colori per la pittura, pesi e volumi per la scultura eccetera: cfr Jakobson 1960). Se l’attore è diventato esperto nell’uso delle leggi del suo materiale, la materia organica del corpo, per produrre effetti che attirano l’attenzione percettiva dello spettatore, quest’ultimo è però colui che percepisce e riconosce la qualità di fluidità del movimento e di scorrevolezza dell’azione, e ne trae sensazione di piacere e di bellezza.
È stato definito come “testo” dello spettacolo, in questa dinamica, l’insieme degli elementi presenti materialmente in scena, così come nel testo letterario materiali testuali sono le parole, frasi, spazi, disposizioni grafiche che compongono l’integralità oggettiva del testo. Materiali testuali sono dunque il corpo degli attori, ciò che gli attori fanno (movimenti, gesti, azioni, sguardi, emissioni di suono e parola), gli oggetti, le luci, i costumi, i suoni, i rumori, il tipo di suolo, la distanza tra attori e pubblico, il tipo di sala, l’ambiente circostante (sala, piazza o strada urbana, spazio immerso nella natura, edificio abbandonato, fabbrica…), la musica, le posizioni e la disposizione nello spazio di oggetti e attori. A un secondo livello testo è la successione di episodi o scene, ognuna composta da questo insieme di elementi compresenti, in una concatenazione lineare nel tempo. A un terzo livello testo sono le interazioni tra attori (e tra attori, oggetti, luci, suoni, spazi) nel corso degli spostamenti in scena o del cambiamento di organizzazione spaziale. L’attore deve tenere conto della presenza di altri attori ed elementi anch’essi in movimento, dunque diventa pienamente consapevole della compresenza. La combinazione di un insieme di “elementi compresenti” in scena con la successione nel tempo costituisce un “intreccio di azioni al lavoro” per usare un’espressione di Eugenio Barba (cfr. Barba, Savarese, a cura, 1983:43-46). Il testo coincide con l’intreccio tra lo svolgimento di azioni nel tempo, tra loro concatenate in successione o che si alternano in svolgimenti paralleli, e la presenza simultanea di più azioni nello spazio scenico: ovvero la compresenza in scena di diverse azioni contemporanee e la trasformazione nel tempo di ciò che accade in scena, e in diverse azioni contemporanee, in relazione a ciò che precede, ciò che segue, ciò che è compresente nello spazio scenico. In ogni caso il testo è “ciò che accade in scena”, in un dato momento e in successione nel tempo, ed è questo carattere empirico e oggettivo che lo rende esaminabile.
Autore empirico del testo è il gruppo di attori, tecnici e regista che lo realizzano materialmente, ma “autore modello” dello spettacolo è la loro unità operativa nell’azione di produrre un dato tipo di spettacolo, adeguato ed efficace in una specifica circostanza e dotato di senso in diverse circostanze successive di rappresentazione. Ogni spettacolo avrà uno spettatore modello, che interpreta il testo in un dato modo idealmente previsto, e spettatori empirici che potranno effettuare l’interpretazione ideale o altre interpretazioni impreviste, discordanti o addirittura inaccettabili. Esistono testi appositamente preparati per una ricezione stratificata, come gli spettacoli dell’Odin che si rivolgono contemporaneamente a quattro distinti spettatori: “il bambino che vede le azioni alla lettera” (osserva l’azione in quanto tale); “lo spettatore che pensa di non capire ma che a sua insaputa danza” (“si lascia contagiare dal livello pre-espressivo dello spettacolo, dalla danza dell’energia degli attori, dal ritmo che dilata lo spazio e il tempo dell’azione […] lo spettacolo lo fa danzare nella sua sedia”: Barba 1988 [1996:244]); “l’alter ego del regista” (conosce tutti i riferimenti, i rinvii, gli strati concettuali come il regista stesso); lo spettatore “che vede attraverso lo spettacolo” (sa riconoscere le scelte tecniche: è l’esperto competente, il critico teatrale o altri attori e registi).
L’atto fondamentale tuttavia del lavoro dello spettatore è mettere in opera l’interpretazione del testo con un atto di cooperazione interpretativa, la visione e partecipazione allo spettacolo, composta di più processi, in cui ha un ruolo attivo di integrazione degli elementi in scena con altri dati, introdotti mentalmente, che fanno acquisire un senso e un valore di significato a quanto accade in scena. La comprensione del testo non è cioè una pura decodifica ricettiva, ma un atto di introduzione di conoscenze per attribuire senso al testo, come accade nei testi letterari e visivi, cui si unisce nel teatro una serie di atti, decisioni, ipotesi e scelte che organizzano la comprensione del flusso di eventi materiali percepiti e della successione temporale di momenti ed azioni. Permettono cioè che tutto ciò che viene percepito come facente parte del testo acquisti un senso e un valore decidendone l’identità e delimitandone l’estensione, trasformando cioè la percezione in identificazione (cfr. Eco 1997, Violi 1997).
Il primo processo posto in opera è la compresenza stessa nello spazio teatrale con gli attori, una situazione che, unita alla consapevolezza di stare partecipando all’evento costituito dallo svolgersi di una data rappresentazione, determina la densità emotiva complessiva del momento. Un secondo processo di cooperazione interpretativa è la decisione di quale consistenza fisica assegnare al testo, ovvero la decisione se collegare le scene che si succedono in una sequenza narrativa unitaria, una storia che viene narrata, oppure percepire ogni scena come una unità autonoma cui assistere isolandola, percependone i caratteri visivi e poetici propri in un insieme la cui organicità non sarà narrativa ma per coerenza con un motivo estetico e poetico di fondo. Un terzo processo di cooperazione interpretativa è la selezione, in ogni scena, di un singolo elemento, una tra le azioni simultanee degli attori o un luogo spaziale della scena, o un oggetto in movimento, che attrae la percezione diventando la dominante percettiva: è quello che lo spettatore ha deciso di seguire tra tutto ciò che accade in scena, e sarà di fatto la base del suo montaggio percettivo finale dello spettacolo. Più raffinata è l’operazione di distinguere i vari livelli di stratificazione del testo, cioè le fonti utilizzate e le fasi della loro confluenza nel testo finale, decidendo peraltro se dedicare tempo ed attenzione a riconoscerle e distinguerle, oppure ignorarle e legarle nella percezione di un unicum testuale unitario e indistinto. Si tratta di un’operazione abituale nella visione di spettacoli tratti da fonti letterarie rielaborate e amalgamate con altre fonti (esperienze personali, racconti, resoconti, descrizioni di fatti che rievocano la narrazione letteraria…), ma risulta utile anche con spettacoli di gruppi che rielaborano parti di spettacoli precedenti, propri o di altri. Ancora, lo spettatore coopera quando scandisce in sequenze il flusso di azioni e movimenti, ovvero decide dove una scena finisce e ne inizia un’altra, decidendo così il proprio ritmo dello spettacolo: e decide che un dato gesto, un dato ingresso, un dato cambiamento di musica o di luci è il momento di cesura tra due scene. Coopera, ancora, quando ipotizza un eventuale valore metaforico di un singolo gesto, o di un singolo oggetto. Alcuni spettatori di Min Fars Hus, spettacolo dell’Odin del 1972 che trae origine da vita e opere di Fedor Dostoevskij, decidono che una donna sconosciuta tastata da un uomo bendato è la madre Russia, o una donna ubriaca è il popolo ingannato (cfr.Taviani 1975:164-166). L’interpretazione è dunque un processo che determina sia l’effettiva consistenza materiale del testo sia il suo senso secondo le diverse scelte e riconoscimenti compiuti.
L’interpretazione non è però atto di libertà soggettiva dello spettatore, ma è delimitata da una serie di indicazioni materiali che indirizzano verso una comune coerenza degli elementi materiali presenti, favorendo una lettura empirica a discapito di altre, che possono purtuttavia insorgere. Nello spettacolo dell’Odin La vita cronica (del 2011) la visione degli spettatori è orientata dai rumori, che indirizzano l’attenzione in un dato punto del palco a pedana su cui agiscono contemporaneamente gli attori durante lo spettacolo. I rumori in questo spettacolo comprendono passi nel buio (rumore di tacchi o scarpe), pietre che cadono, musica, canto (un attore inizia improvvisamente a cantare o suonare), sussurri, urla, colpi di pistola, oggetti che cadono improvvisamente al suolo, tintinnio di monete, un sacchetto che si squarcia (attorno al capo di un’attrice), ghiaccio che si spezza scagliato al suolo, un cubetto di pietra battuto su una padella, la fiamma ossidrica usata nel buio. Svolge ruolo di suono anche il silenzio, quando improvvisamente si fa silenzio totale di suoni, voci, rumori. Un rumore nuovo, o che inizia a crescere da una parte della pedana, sposta lo sguardo degli spettatori verso quel punto, mentre quando si prolungano contemporaneamente due o tre rumori e suoni non nuovi gli spettatori si dividono in gruppi che guardano in due o tre punti diversi della scena: scelgono cioè quale azione seguire tra quelle contemporanee in scena, realizzando un’interpretazione tra quelle possibili in base alla materia del testo. Più in particolare, in La vita cronica si distinguono tre casi di rumori come spostatori d’attenzione:
(a) un rumore nuovo sposta lo sguardo verso di sé; a volte cresce lentamente nel silenzio, a volte fa da contrappunto a una scena già in corso;
(b) un rumore nuovo fa anche da segnale di cambio scena, viene cioè usato dallo spettatore per demarcare l’inizio di una scena nuova nel flusso di azione, musica, movimenti;
(c) spesso il cambio scena è indicato da un rumore non solo nuovo ma anche di un tipo nuovo e diverso: rumore di materie fisiche vs. suono di origine umana (colpi metallici vs. canto o musica), battere di mani vs. rumore di oggetti (rumore umano vs.rumore di oggetti), tacchi di scarpa (“sta entrando qualcuno dall’altra parte della pedana”) vs. voce.
La dinamica della formazione di un senso imprevisto dall’autore è stata spiegata con una contestualizzazione dello spettacolo imprevedibile in anticipo, che crea però un percorso di senso del tutto nuovo in un altro contesto storico. Nello spettacolo Kaosmos dell’Odin, presentato in Cile nel 1993, sono in scena uomini “in attesa davanti alla porta della legge”: si utilizza infatti il racconto di Kafka Davanti alla legge. In quel momento in Cile gli indigeni Mapuche sono da settimane seduti di fronte al palazzo presidenziale in attesa di essere ricevuti per protestare contro l’esproprio delle loro terre. Lo spettacolo assume un senso di denuncia per una rivendicazione che né Kafka né l’Odin potevano prevedere. Negli stessi giorni sui giornali cileni si parla quotidianamente della ricerca della verità da parte dei familiari dei desaparecidos: “Una donna viene dall’Argentina per vedere Kaosmos. Non ha dubbi sul tema dello spettacolo: riconosce subito le madri della Plaza de Mayo che cercano di sapere la sorte dei loro figli e i Mapuche che aspettano davanti al palazzo della legge” (Varley 1996:63). Il meccanismo della formazione di un senso imprevisto si basa sul riferimento degli spettatori a fatti e situazioni sconosciuti all’autore e imprevedibili al momento della composizione del testo.
Tra i fatti relativi all’interpretazione dello spettacolo sono due comunque quelli che sono apparsi inattesi come più rilevanti. Il primo, che abbiamo già citato, è la tensione fondamentale che esiste nello spettatore all’interpretazione dello spettacolo come narrazione o come successione di scene singole isolate e percepibili come separate. Nel primo caso lo spettacolo è letto come una storia: di chi o di cosa si sta parlando, quale storia ci viene raccontata? Nel secondo caso ogni singola scena aggredisce la percezione con la sua bruta “crudeltà”, e genera un effetto emotivo dovuto all’intensità del gioco attuato tra i suoi elementi. Questa tensione interpretativa sembra una costante fondamentale nell’interrogativo dello spettatore per partecipare efficacemente a ciò cui assiste, mentre il suo controllo sembra d’altronde una tecnica essenziale per l’autore dello spettacolo, che può rinviare da una modalità all’altra fino a determinare un equilibrio esteticamente efficace, o lavorare avendo come obiettivo l’uno o l’altro di questi poli opposti. Ma alla fine la scelta su quale direzione interpretativa seguire è decisione dello spettatore, ed è la sua opzione di fruizione.
L’altro fatto è invece il valore di senso che scaturisce dall’impatto con l’evidenza fisica e materiale dell’azione in scena, che trova un inizio di risposta nella particolare densità emotiva creata nella situazione di compresenza per un’esperienza che sta avvenendo proprio solo, e ogni singola volta in modo unico e irripetibile, perché si incontrano spettatore (“con la mia presenza faccio accadere qualcosa che non accadrebbe se io non ci fossi”) e attore (“faccio qualcosa di autentico e non falsamente simulato perché sta accadendo davvero insieme a un’altra persona”) consapevoli dell’autenticità di quanto avviene.
L’utilità della ripresa di una semiotica applicata al teatro è la possibilità di spiegare alcuni meccanismi fondamentali della formazione di un senso nello spettacolo, come finora è stato fatto solo parzialmente, e come i primi risultati qui presentati sembrano indicare possibile. Questo lavoro proseguirà anche come tracciato pedagogico in aula universitaria, dove trova un ambiente fertile e ricettivo, nonostante le carenze strutturali ben note a chi lavora oggi in università. I temi teatrali si fondono poi, in questa ricerca, con l’analisi della cooperazione internazionale e dei fermenti sociali attuali nel quadro della formulazione di una semiotica dei fatti sociali e culturali, tra i quali ha un suo ruolo esemplare il teatro.
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