Ermanna Montanari, Aung San Suu Kyi
Attrici & attori ateatro
L’attrice entra in scena con un abito vintage di A.N.G.E.L.O, di seta che evoca la giada e scarpe decolleté rosse, con un po’ di tacco: un’eleganza paragonabile a quella orientale di tradizione. Poi indosserà abiti birmani: giacchine aderenti, lunghe gonne dritte che fasciano e si stringono in basso, sete disegnate acquistate in loco, zoccoli con le suole alte. I capelli neri raccolti con fiori appuntati dietro, orchidee o rose. Ermanna Montanari si occupa personalmente dei costumi: un’ attenzione legata alla sua sensibilità per il gioco delle linee e dei colori, che si alimenta dalla sua competenza a trattare con le sarte. La pettinatura condiziona la posizione del collo che entra in tensione per allungarsi e restare dritto, il corpo è costretto a un’andatura controllata: piccoli passi, piccoli gesti. La gentilezza della rivoluzionaria non violenta Aung San Suu Kyi, che è alla lettera nobiltà, comporta il dominio del corpo e delle emozioni. Comincia con un lavoro fisico di questo tipo l’assunzione del personaggio, nutrito delle immagini e delle parole di questa protagonista della storia, fino alla conoscenza diretta della sua Birmania. Il testo di Marco Martinelli è stato già pubblicato da Luca Sossella. La regia è pure di Martinelli, che conferma qui la sua abilità di creatore di suggestive macchine teatrali, in collaborazione con artisti di forte personalità, diventando “regista di registi”.
“È distante la Birmania?” recita la prima battuta. Sì, niente a che vedere con Campiano, il paese romagnolo dove Ermanna è vissuta fino alla primissima giovinezza, che ha alimentato la fase centrale della sua carriera segnandone l’identità artistica: quel dialetto gutturale che spezza le parole e non concede mezzi toni, quelle passioni senza scampo, figure come Bêlda di Luş e Alcina, sofferenti, rabbiose, senza mitezza. Figure arcaiche, che paradossalmente contrastano con certe immagini di Ermanna ancora in cerca di sé come attrice: si veda un frammento dai Brandelli della Cina che abbiamo in testa (su youtube, mezzo minuto all’inizio del primo video: Lo senti il vento…) oppure, rispetto al mezzo cinematografico da lei poco praticato, l’immagine tratta da Lachrymae. La regista Maria Martinelli la descrive “come baciata dalla luna, irraggiungibile”. Insomma un’attrice col carisma dell’eleganza. E, d’altro canto, personaggi legati per alcuni aspetti ad Aung San Suu Kyi: Alinsitowe, la eroica regina senegalese di Lunga vita all’albero, e <Rosvita, vissuta non agli arresti domiciliari ma in un convento come badessa. Mi sembra anzi, due o tre volte, di risentire qui le voci di alcune protagoniste dei suoi drammetti.
Non deve essere stato semplice per l’attrice incarnare la bontà di questa icona politica contemporanea. Né l’ha aiutata la struttura del testo, che punta sul registro grottesco per le altre parti, in maschera (scimmiesca) e non, per lo più di potenti (di cui si privilegia la stupidità) e di loro lacchè (si sarebbe detto nel 68), a cominciare da dittatori e generali per finire con il funzionario dell’ONU e con la giornalista di “Vanity Fair”. (Ne parlo sul numero 68/69 di “Catarsi-Teatri delle diversità”: L’Aung San Suu Kyi di Marco Martinelli). Tanti personaggi interpretati da tre attori generosi e affiatati (più Fagio, che compie un’incursione): Roberto Magnani, Massimiliano Rassu e Alice Proto. I primi due creano anche un siparietto comico sui Moustache Brothers e Alice Proto non è impegnata solo nelle parti grottesche, mentre il loro coro narra alla maniera dei cantastorie. Ma a dominare è un’alternanza in cui all’interprete di San Suu Kyi è affidato il compito di rappresentare la sfera intima e la sfera politica “buona” (fino a chiamare in causa le spettatrici, con un gesto che a me sembra d’altri tempi).
Una figura bidimensionale che si staglia sullo sfondo della Storia in opposizione ai nemici marionette? Era possibile, data la difficoltà di mettere in relazione raffigurazione grottesca e tragedie individuali. Ermanna Montanari ne fuoriesce lavorando in particolare sui monologhi ed entrando in dialogo con la musica di Luigi Ceccarelli. Ceccarelli accompagna lo spettacolo di Martinelli giocando su più registri, con composizioni sue e non, come il seicentesco Canone di Pachelbel: dai suoni della tradizione orientale alle canzonette birmane trattate elettronicamente, al rap. Montanari trattiene le passioni, che non possono liberarsi. Scandisce le parole italiane a lungo masticate. Costruisce un ritmo tutto suo, con enfasi e punteggiature impreviste, che non liberano il flusso del racconto ma nemmeno lo sacrificano sull’altare della sonorità.
Aung San Suu Kiy comincia a svelarsi in un monologo d’amore per il padre, eroe della patria ucciso dai militari: è rimasta orfana a due anni. In questa cifra dell’interiorizzazione del dolore, fino alla dolcezza, uno dei momenti più intensi è il dialogo con il geco:… “stiamo invecchiando qui dentro, … forse ci moriremo, qui dentro… Le senti, quelle donne? Cantano nella pagoda di Shwendagon, perché mi venga ridata la libertà”. Per lo più parla di sé senza mettersi al centro e, alla fine, fa piccoli gesti di danza, appena visibili nel buio: quasi riti di passaggio in una vita costretta fra segretezza e sovraesposizione, ben interpretata dalle luci di Francesco Catacchio e Enrico Isola. Quando sullo sfondo scorrono immagini di lotta è lei a raccontare del corteo dell’8.8.’88 trasformatosi in strage: restando immobile, accompagna con il pathos della voce sommessa le proiezioni. Per un’illusione ottica sembra che la sua testa ondeggi leggermente in armonia con la folla. L’immagine pubblica oscura un’altra crepa tragica nella sua vita: per assistere la madre malata lascia il marito Michael Aris e i figli piccoli a Londra e sceglie di non tornarci per non perdere la possibilità di rientrare in Birmania. Un tema da dramma didattico che si aggiunge ad altri richiami a Brecht (chiamato sulla scena in veste di fantasma). Michael, l’uomo “della sua giovinezza”, muore di tumore senza averla accanto. Sulla scena lampeggiano nel buio parti del corpo di San Suu Kyi danzante a terra: sembrano braci di carboni che cadono a pezzi. Come se bruciassero le fotografie che vediamo su youtube: testimonianze del loro amore, di struggente bellezza.
La scena predilige la bidimensionalità con richiami all’oriente. A destra una striscia rossa, verticale, netta: come un segno di pennarello sul cartone, un sipario di velluto aperto appena appena. Anche lo spazio è firmato da Ermanna Montanari: un ambito privilegiato della sua attitudine visionaria. È appena successo col dittico messo in scena per il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto, che ho potuto commentare con l’architetto Mariani. Una scatola nera, un parallelepipedo non lavorato a mo’ di catafalco su cui giace il corpo dell’attore (Alessandro Argnani) coi piedi verso il pubblico, uno specchio grande, inclinato, e due più piccoli ai lati che moltiplicano quel corpo, lo proiettano in alto, un panno verde, una serie di cipressetti alti un palmo come fossero personaggi, luci che tagliano i vetri e la figura umana: bagliori sinistri per la trasfigurazione visiva del gioco come vizio, come gorgo. Poi, dopo Il giocatore, sempre su testo e regia di Martinelli e su musica di Cristian Carrara, La canzone dei luoghi comuni. La scatola scompare per mostrare l’abside della chiesa sconsacrata di san Nicolò, un arco metallico a traliccio sul quale si collocano i due cantanti in nero, una pedana per l’attrice, tubi Innocenti con due dischi come ripetitori. I colori dal violetto al rosa creano effetti variati sull’intonaco antico che non è liscio. La luce ora colpisce dritta, ora è radente, crea ombre e variazioni di colore minime ma sostanziali. Restano i cipressetti che diventano giardino. Bambini con abiti di tutti i giorni, colorati. Verde scuro e bianco candido per Ermanna Montanari. Mai – che io ricordi – l‘abside di san Nicolò, dopo la destinazione a sala teatrale, era stata messa così a nudo per uno spettacolo.
Le immagini di Vita agli arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi, fatta eccezione per l’ultima, appartengono alla seconda tappa del servizio fotografico di Enrico Fedrigoli. Le ha date fresche fresche di stampa e di questo lo ringrazio calorosamente.
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