Inequilibrio: una casa per gli artisti tra leggerezza e maturità

A Castiglioncello la XVIII edizione

Pubblicato il 16/07/2015 / di / ateatro n. 155
Inequilibrio

Roberto Latini/ Narciso

Verde, rosso e bianco sono i tre colori predominanti nelle performance che si sono susseguite, nella necessità del mostrarsi, a Castiglioncello per la diciottesima edizione di Inequilibrio, nella seconda settimana di lavori dall’1 al 5 luglio. Roberto Latini usa questi colori nel suo studio itinerante nei luoghi di Armunia, attraverso uno studio dalle Metamorfosi di Ovidio e ci fa notare come in effetti questi colori rappresentano il simbolico tricolore italiano. Per tale ragione ci sembra appropriato considerare questa ridondanza nella sua volontà identitaria e politica negata dalle istituzioni, potrà forse trovare motivo d’essere nella profondità d’artista? La fortezza tra boschi e mare – sipario e confine naturale – è così colorata da una ricorsiva esuberanza tra i diversi linguaggi e spettacoli, nei costumi, attraverso le luci, semplificando:  il bianco è connotato dalla verticalità metafisica, il rosso dalla femminilità e il verde dalla dimensione umana.

Ad Angela Fumarola, sportivo elfo della pineta e, direttrice artistica di Inequilibrio con Fabio Masi, abbiamo chiesto cosa abbia imparato da questo anno di lavoro in cui si compie il diciottesimo anno della manifestazione. “Questo festival mi ha dato una conferma – dichiara Fumarola – esso è sempre più uno strumento attraverso il quale nascono relazioni nuove ed è una grande opportunità al di là del processo artistico. Reti, trasversalità, incontri possono far nascere nuovi frutti. Attraverso la presentazione di lavori molto eclettici è davvero una grande famiglia a ritrovarsi, anche durante il festival si creano delle famiglie, questa è una casa per gli artisti.” Le chiediamo cosa ricorda della sua maggiore età e racconta: “a diciotto anni desideravo lavorare in teatro mentre studiavo per la mia maturità classica, era una fase di passaggio, come lo è il festival che già nel suo titolo comprende una fase liminare ma anche di assunzione di responsabilità, pur mantenendo la leggerezza, quella più alta in senso calviniano”.

La danza dona profondi spazi di riflessione con un lavoro che si compone di tre studi – Intorno al fatto di cadere, Sul punto e Qui, oradi e con Claudia Catarzi. Catarzi conduce lo spettatore nella cecità visionaria della performer, che interrompe le sue forme coprendo il volto con i palmi/sipari, dopo una dolce e umana ballata da Johnny Cash. Il tempo è accartocciato nel corpo-lancetta della danzatrice, mosso in senso antiorario, evocando una opprimente rigidità sensoriale, attraverso un fisico scartato da una gonna, da cui la donna riciclata si libera, viene alla luce e disapprende il passo. Diviene così una femmina dotata di zampe, straccia ferite di carta mentre tre lune-cerchi-meridiane (forse solo sembianza del disco musicale, dal suono antico, che crea un iniziale tappeto sonoro?) a tempo ritmano le ombre e le luci in un’assenza disegnata da poligoni. Ed è ancora una volta attraverso una riflessione legata al tempo che si snoda la drammaturgia danzata di Qualquier Mañana con la coreografia Any given morning di e con Laura Aris e Álvaro Esteban. Il legame tra i corpi dei due danzatori, sembra indissolubile, è descritto da una dimensione carnale che genera un continuo partorire e appiattimenti lombari, mediante una esplorazione contact. La disperazione rock e l’urlo sono generati da uno scontro toracico, quindi cardiaco, è la donna ad abbandonare sulla scena l’uomo, fuggendo indifferente dopo l’ennesima creazione spasmodica.

Iperrealismi-Cerina

Iperrealismi

Un cappello detta la frammentazione narrativa e un uso dello spazio come struttura drammaturgica, in cui morire, risorgere e generare pioggia: Senza trama e senza finale di Carmen Giordano è pertanto un pianto fittizio concepito dai lembi di un ombrello aperto che illumina una ombra d’acqua su una parte del palcoscenico; unici ed essenziali scene e costumi di Maria Paola Di Francesco. Gli Iperrealismi di Helen Cerina celebrano il campo della simulazione e della loro riproducibilità, non temendo di riprodurre sulla scena il dolore, la malattia ma anzi esibendola con raffinata dolcezza, anche quando essa sia solo il simulacro di un passo di bimbo che corra goffamente su una spiaggia. Destrutturata e tenera la partitura-scrittura di Marangoni/Neziraj per un concerto che narra le gesta del ranocchio Fito eroe e profeta d’amore. Ed è un ensemble irrestibile quello ritratto da Magdalena Barile, ha l’ambizione ironica e dissacrante di essere Il migliore dei mondi possibili, è d’altronde “una commedia sul piacere della schiavitù”.

Un intento da commedianti, non teatrali, ma da radio o anche e meglio da gag televisiva, è insito nel lavoro di Quotidiana.com, i tre testi presentati sono ben necessari ma più per essere letti o rappresentati per brevi cenni seriali, piuttosto che per una intera ora, d’altro canto tuttavia gli stessi autori e attori ambiscono a un contagioso sacrificio sulla scena, forse per redimere il pubblico dei pazienti spettatori-martiri, Lei è Gesù? Luca Scarlini con una improvvisazione-lezione offre una generosa e poco nota storia d’amore e di lutti, il “match D’Annunzio-Mascagni”. Un dialogo vero e piuttosto concreto è quello che ritrae Virginio Liberti in Matrimonio Segreto per Gogmagog, dialettica sentimentale e surreale si adagiano tracciando passi, sui volti-scene pienamente mortiferi, fotografati da Graziano Staino.

Ci si chiede perché inscenare Kalavryta delle mille Antigoni, nella buia e rumorosa galleria di un sottopassaggio ferroviario e non, piuttosto, farla ascoltare in uno degli antri della incantevole pineta di Castello Pasquini, con la magnifica ed energica Rosanna Sfragara? Siamo certi che in Alice Drugstore di OSM avremmo preferito vedere una ragione drammaturgica e non una infelice esibizione, priva di contenuto, ma ricchissima di oggetti di scena, forse i veri protagonisti, unitamente a telenovelas in loop trasmesse da una tv raffinatamente accesa, che sosta beatamente in un angolo del palcoscenico. Gli irriverenti Igor&Moreno danzando il loro Tame game, strappano sorrisi e apprezzamenti per l’originale coreografia. Tuttavia se qui è concesso l’aggettivo “strepitoso” non c’è alcun dubbio che esso debba essere attribuito e declinato  per le Conditions of being mortal degli ungheresi Hodworks.

Hodworks

Hodworks

 

Attraversamenti di e con Maurizio Lupinelli per Nerval Teatro inneggia alla verticalità del surreale, rappresentando i ritratti di Giacometti, con le battute di Beckett, con attenzione al disagio-gioco di un teatro metafisico che sembra suggerire “seguite i pochi e non la volgare gente”. Incantevole il doppio di Lupinelli sulla scena, impersonato dal simmetrico bimbo dai capelli lunghi e biondi: figura di demone che con il compagno di giochi, più che un servo di scena appare come protagonista di uno spiazzante e indomito finale. Non è pertanto un caso che il libro curato da Marco Menini per Longo Editore, La ferita dentro il teatro di Maurizio Lupinelli, racconti un “teatro della fragilità” che si risolve “in atti d’amore per l’esistenza”, come rileva Gerardo Guccini nella postfazione al lavoro, infatti tra le pagine del suo lavoro, più volte Lupinelli dichiara di avere imparato da Leo de Berardinis e Antonio Attisani a tracciare “il pretesto” per occuparsi con rigore del linguaggio teatrale. Il volume è stato presentato nello spazio della Limonaia, dove si è anche svolto un interessante e necessario evento rivolto ai giornalisti di ambito culturale ma non solo dal titolo L’informazione nello spettacolo dal vivo. Fil rouge dell’incontro è stato l’indiscusso dibattito sul momento storico e i linguaggi del nuovo critico, che convive con la carta stampata spesso sempre più scevro dai dettami di un ordinamento legislativo, che tuteli il lavoro di un imbastardito professionista: addetto stampa-comunicatore-critico seriale.

Metamorfosi da Ovidio di e con Roberto Latini, e con gli altrettanto eccezionali demoni-interpreti (in ordine di apparizione): Giancarlo Ilari, Alessandra Cristiani, Savino Paparella, Sebastian Barbalan, Ilaria Drago; dona un ascolto sensoriale attraverso spazio e bellezza. Le luci che attraversano le porte percettive – davvero sembrano quelle di Aldous Huxley –  sono di Max Mugnai; lo sconfinare del suono gocciolante eco è potenza invasiva ed è eseguito dal compositore Gianluca Misiti. Qui ci sembra opportuno descrivere con le parole di Jean Genet questa “bellezza così potente che d’un sol colpo ci fa penetrare in lei, con tale spontaneità che proviamo il sentimento di “possederla” (nei due sensi della parola: esserne pervasi e trascenderla guardandola dal di fuori)”. Le parole rimangono sospese in un’apnea liminare e nell’istante irriproducibile della leggerezza evocata, di più sarebbe dissacrante dire.




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InformazioniVincenza Di Vita

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