Quando il pubblico è plurale

Tecnologia sociale, innovazione e audience development per operatori dello spettacolo dal vivo

Pubblicato il 06/07/2016 / di / ateatro n. 158

La relazione presentata nel focus group “Qualità e funzione pubblica nella distribuzione di teatro”, #BP2016 Oltre il Decreto, Milano, 15 giugno 2016.

Leo Bassi schizza il pubblico

Leo Bassi schizza il pubblico

Il pubblico è un’astrazione. Per lo spettacolo dal vivo, la nozione onnicomprensiva di pubblico si scontra con la varietà e la diversità degli spettatori che nella realtà vi assistono. L’uso della parola pubblico, in forma di collettivo singolare, comporta una sottaciuta funzione ideologica. “Il pubblico non ha apprezzato questo allestimento”. “Piace molto al pubblico”. “Il mio pubblico preferisce spettacoli d’intrattenimento”. Sono affermazioni che gli operatori dello spettacolo dal vivo spesso pronunciano. In questi casi la parola pubblico è un’arma linguistica, utile soprattutto a convincere l’interlocutore della giustezza delle proprie scelte.
Con il termine operatori si fa rifermento a coloro che dal versante della produzione e da quello della programmazione delimitano il mercato dello spettacolo, luogo d’incontro tra l’offerta (affidata dalla produzione agli artisti) e la domanda (che proviene dagli spettatori, ed è mediata da chi programma le sale). E’ l’articolato e complesso meccanismo della distribuzione.
Ogni ragionamento che lo includa dovrebbe sempre far riferimento, non al pubblico, ma alla varietà dei pubblici di riferimento. Perché i pubblici sono plurali. C’è un pubblico metropolitano e uno di periferia. Esiste un pubblico over 60 e un pubblico under 25. C’è chi può permettersi la spesa di alcune decine di euro per assistere a un allestimento di teatro musicale e chi, meno dotato economicamente, apprezza la funzione di inclusione sociale offerta dall’abbonamento a una stagione municipale. Uno spettatore colto chiede allo spettacolo di interagire con la propria cultura, magari allargandone i confini. Capita all’opposto che un pubblico meno acculturato cerchi a teatro momenti di distrazione e intrattenimento, al fine di alleggerire il carico dei problemi quotidiani. C’è il pubblico vago e occasionale e il pubblico ‘inquadrato’ delle scuole. Si potrebbero individuare anche altre categorie.
La pratica insegna che questi diversi pubblici non si mischiano quasi mai, la permeabilità è scarsa, la trasversalità un’utopia. Al proprio interno, queste categorie risultano invece compatte. Anche a un’osservazione superficiale, gli spettatori che scelgono di assistere uno spettacolo del performer Roberto Latini al Teatro India di Roma hanno un profilo socioculturale omogeneo, così come lo hanno coloro che, nella stagione di un teatro comunale di provincia, scelgono formule d’abbonamento che includono gli spettacoli “leggeri” di Ficarra & Picone, Vincenzo Salemme, Antonio Cornacchione.

Orlando Furioso

Orlando Furioso

Elementari cognizioni di storia dello spettacolo ci dicono che il teatro (considerato come somma dei generi che si sono storicamente affermati attraverso i millenni) rappresenta anche una forma di tecnologia sociale. Basti pensare alla funzione che gli spettacoli teatrali hanno svolto nell’ambito della civiltà greca classica. Al ruolo di evangelizzazione, svolto soprattutto nel periodo medievale. Alla collocazione della festa-teatro nella vita delle corti umanistiche e rinascimentali. Per propria natura, ogni tecnologia sviluppa processi di miglioramento e innovazione. Anche le tecnologie sociali, naturalmente.
Perché non utilizzare strumenti analitici che vengono applicati ai fenomeni di innovazione tecnologica al fine di poter meglio determinare la consistenza, i profili, le aspettative, i bisogni, i modelli di consumo dei diversi pubblici di cui ci stiamo occupando? Pubblici nei confronti dei quali, attraverso la chiave dell’innovazione, si dovrebbero moltiplicare al plurale i ragionamenti che portano a produrre e a programmare spettacolo.
L’innovazione è un elemento chiave, sia per comprendere i consumi dei gruppi sociali, sia per comprendere i compiti che lo Stato e le amministrazioni pubbliche devono attuare nei loro riguardi. Non è fuorviante, in tale contesto, il richiamo alla prima parte dell’articolo 9 della Costituzione Italiana dove si dice che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. Espressione nella quale sembra corretto leggere che ricerca tecnico-scientifica e sviluppo culturale parimenti concorrono al miglioramento e alla valorizzazione della vita dei cittadini.

Roger Bernat, Domini Pùblic (foto Silvia Bottiroli)

Roger Bernat, Domini Pùblic (foto Silvia Bottiroli)

Nel doppio valore che così si tende a riconoscere alla parola innovazione, utile mi sembra la riflessione che stanno svolgendo i contemporanei studi sui consumi (intendendo il consumo come “modo corale di usare le cose”, da cum-sumere) e alcuni strumenti (elaborati già cinquant’anni fa in ambito di ricerche di marketing) che si sono via via affinati. La curva di adozione delle nuove tecnologie (Rogers, 1962, aggiornata dai recenti consumer studies) [1] si presta bene ad essere accostata alle questioni di audience development and involvement (l’allargamento e il coinvolgimento del pubblico). Oltre che applicarsi all’adattamento della collettività alle tecnologie, la curva può essere uno strumento per semplificare la visione della domanda teatrale dei pubblici, e orientare più efficacemente le scelte nel settore della distribuzione.
Il primo segmento della curva individua negli innovators (innovatori) gruppi di individui mentalmente inseriti nei processi di innovazione e a volte partecipi delle loro trasformazioni. Il secondo segmento comprende gli early adopters (anticipatori) soggetti per i quali la novità rappresenta un forte motivo di interesse in una visione avventurosa del consumo, proiettata al futuro. Viene quindi il segmento early majority, una prima maggioranza che si pone sul versante dell’anticipazione, ma si è presa il tempo sufficiente a capire se la novità è giunta ad un assestamento e mostra dei vantaggi rispetto a ciò che c’era prima. A seguire c’è una late majority (maggioranza tardiva), che con maggior scetticismo subisce il cambiamento. L’ultimo segmento è quello dei laggards, i ritardatari, più legati alle forme e ai contenuti della tradizione, e per nulla propensi a cambiare [2].
Se proviamo a riportare il modello di Rogers alla penetrazione dei contemporanei device tecnologici possiamo individuare negli innovators (nerds o techies, secondo altre definizioni) la fascia più avanzata di utilizzatori, quelli che sono in grado per di manipolare e personalizzare i più recenti prodotti e si interessano alla sperimentazione di versioni beta, cioè non commercializzate e ancora in via di messa a punto. L’utilizzo di tecnologie già note, ma non diffuse su larga scala come i wearable (la tecnologia indossabile, gli smartwatch) potrebbe essere appannaggio della seconda fascia, soggetti visionari ed eccitati dal nuovo. Una buona consapevolezza nell’uso di tablet e smartphone compete alla terza fascia, categoria di individui pragmatici, che guardano soprattutto all’aspetto pratico delle migliorie. Laddove il quarto segmento, più conservativo, sembra sentirsi a proprio agio quando lavora su computer portatili. Infine, ritardatari sono coloro i quali, per ragioni diverse, si sono dovuti arrendere, forse loro malgrado, all’uso di un computer da tavolo, visto che oramai della posta elettronica e della consultazioni di alcuni siti non possono fare a meno.
Un segmentazione di questo tipo permette di aggregare variabili di tipo socio-economico, generazionale e geografico (come quelle individuate prima nel differenziare i pubblici) riportandole a una propensione dei diversi gruppi ad accettare (o meno) le novità.
L’analisi di Rogers, e ciò che ne è seguito in questi cinquant’anni, non è immediatamente replicabile in campo culturale e artistico, ma potrebbe rappresentare un modello-guida, o magari un’ispirazione, quando si ci voglia avvicinare alla diversità dei pubblici nel settore dello spettacolo dal vivo.
Anche in questo caso l’innovazione dei linguaggi è qualcosa che viene accettato gradualmente dai pubblici. A prescindere dall’effettiva consistenza numerica e percentuale (che bisognerebbe calcolare in modo empirico) diventa facile riconoscere, nel pubblico (astratto) dello spettacolo i diversi pubblici segmentati (e concreti).
Ricordando che si parla di fasce di pubblico e non del valore delle singole creazioni artistiche, si può provare ad applicare il modello, in via esemplificativa, a diversi “campioni” di teatro in distribuzione in questi anni. Si potrebbero così individuare:
– gli innovators, una fascia di pubblico ristretta che ha fatto del teatro un luogo privilegiato di interesse; sono spettatori esperti e potrebbero essere anche inseriti personalmente nel settore, con diverse funzioni; sono piuttosto giovani, non giovanissimi, e costantemente informati; tendono a seguire artisti e prodotti in cui predominano la sperimentazione e la rottura con i codici linguistici precedenti; sono anche disposti a rischiare che certe loro predilezioni si dimostrino poi insoddisfacenti. Le drammaturgie complesse di Rafael Spregelburd, il teatro post-drammatico dei Rimini Protokoll e di Christoph Marthaler, la scrittura difficile di Elfriede Jelinek, potrebbero facilmente rientrare tra i loro oggetti d’affezione;
– gli early adopters, fascia numericamente più ampia, sono spettatori avventurosi, dalle preferenze ben definite, consapevoli di essere degli influencer, quanto a conoscenza e predilezioni; un grado di cultura ed esperienza piuttosto alto li mette al riparo da sperimentalismi esasperati e tendono ad apprezzare artisti e fenomeni, soprattutto internazionali, che hanno cominciato a definire trend artistici. Si potrebbero trovare in sintonia con artisti come Angélica Liddell oppure ricci/forte, o Antonio Rezza. Possono trovarsi a proprio agio davanti alla regia post-novecentesca di Antonio Latella, Armando Punzo, Romeo Castellucci;
– la early majority è una maggioranza relativa, come dice l’etichetta, che capisce e apprezza le forme del nuovo, sempre che il grado di innovazione non raggiunga temperature troppo intense, e comprenda piuttosto esperienze e linguaggi già consolidati, e magari già riflessi nei media. Sono soggetti propensi a forme di abbonamento selettive (rassegne specializzate) e riconoscono il valore della tradizione, allorché si presenta in modi qualitativamente alti. Potrebbero essere gli spettatori ideali sia per Pippo Delbono sia per Emma Dante. Ma anche per la programmazione dei teatri milanesi Puccini e Parenti. Prestano attenzione a contaminazioni illuminanti, come quelle che sa fare Moni Ovadia. Si possono collocare in questa fascia anche i giovanissimi che frequentano per le prime volte il teatro, non spinti da un percorso didattico, ma per scelta;
– la late majority si è adattata con una certa lentezza alle trasformazioni; sa che non è più possibile assistere alle “belle commedie di una volta” e ha inteso il valore di una certa “regia critica”, dall’ultimo Ronconi ai progetti di Mario Martone. Sono spettatori che potrebbero ugualmente apprezzare Thomas Ostermeier o Declan Donnellan per come sanno “trattare” i grandi autori, e riconoscono in Toni Servillo l’esempio contemporaneo del grand’attore di una volta. Sul versante dei monologhi a soddisfarli sono le educate conversazioni con il pubblico di cui è capace Lella Costa, oppure le piccole intemperanze di Roberto Benigni;
– i laggards, sono la fascia che ha come valore guida la solidità di una tradizione, spesso quella che privilegia allestimenti di autori classici (in Italia soprattutto Goldoni e Pirandello), oppure le forme facilmente leggibili della commedia “leggera”, il teatro dei comici in coppia, lo show del personaggio nato in televisione, la rivisitazione teatrale di celebri film. Sono i più propensi a forme di abbonamento, in quanto “si fidano” della programmazione della loro sala. Spesso sono affezionati anche al proprio posto/poltrona e si mettono in fila nei giorni riservati al “rinnovo abbonamenti” per assicurarselo. Non sono soltanto persone di una generazione matura, ma anche individui più giovani, che non hanno avuto una specifica educazione in campo artistico, ma ne apprezzano gli esempi più riconoscibili. Sicuramente non rappresentano il 16% esposto da Rogers per i laggards della tecnologia, ma una percentuale molto più alta.

Squat Theatre, Andy Watrhol's Last Love

Squat Theatre, Andy Watrhol’s Last Love

E’ probabile che chi tende a considerare l’innovazione dal punto della produzione artistica guardi a un simile modello con diffidenza, per la riduzione dei valori creativi a semplici proposte di consumo. E’ un obiezione da accogliere e da considerare. Ma è soprattutto a chi programma teatro che va suggerito il modello proposto, a chi cioè dovrebbe vedere la propensione all’innovazione come un dato caratterizzante i diversi pubblici.
Esiste infatti una distorta, se non errata, percezione dei comportamenti che gli operatori attribuiscono al proprio pubblico. Consiglio di riflettere sul seguente caso. Capita spesso di sentire la compiacenza che certi programmatori di circuiti teatrali, applicano a se stessi dichiarando l’alta affluenza di pubblico giovanile alla offerta del loro settore scuola. Si tratta di un’affluenza per molti versi ‘guidata’. Ma non è questo il punto.
Una recente indagine statistica ha esaminato la fascia di consumatori che va dai 14 ai 25 anni (la Facebook Generation che dà il titolo al libro di Gabriele Qualizza) e rileva: “Se si eccettua il cinema, appare carente anche la partecipazione ad attività di carattere culturale: sommando le prime due risposte [mai o quasi mai / mai negli ultimi tre mesi] risulta che l’82,8% – complessivamente – non ha mai assistito a uno spettacolo teatrale, il 91,4% ad un concerto di musica classica, il 73,6% a un concerto di musica leggera o rock. Inoltre il 76,3 non ha visitato neppure una mostra, e il 74,5% non ha avuto occasione di partecipare nemmeno a un convegno” [3]. Fatte le debite correzioni (in particolare sull’adozione del termine “tempo libero” e sul criterio di somma [mai o quasi mai + mai negli ultimi tre mesi]) è comunque palese che, quanto all’andare a teatro, esistono percezioni molto diverse, da parte degli operatori e da parte di questa fascia generazionale. E’ una distorsione sulla quale bisogna quanto meno riflettere.
La buona conoscenza dei propri pubblici (e un colloquio costante con loro) potrebbe permettere agli operatori dello spettacolo dal vivo di riportare questa loro esperienza anche nel colloquio con gli artisti, in modo che tale consapevolezza sia trasmessa anche a loro. Si aprirebbe così uno spazio comune in cui le variabili della creazione e quelle della fruizione, trovino modo di incrociarsi, determinando spazi di mercato in cui offerta e domanda parlino un linguaggio comune e possano valorizzarsi. Sostegno alla creazione artistica e audience development possono, e devono, andare di pari passo, coì da ridurre stagnazione economica [4] e sprechi di risorse: caratteristiche, ma non necessariamente valori, dello spettacolo dal vivo.

Roberto Canziani (Università di Udine)
(giugno 2016)

REFERENCES
[1] Everett M. Rogers, Diffusion of Innovations (1962, 5° edizione, 2003, Free Press – Simon & Schuster). Rogers si è occupato in seguito anche di Education-Entertainment, ciò che oggi associamo al neologismo edutainment.
[2] Una sintetica trattazione della curva di Rogers, in inglese: www.ou.edu/deptcomm/dodjcc/groups/99A2/theories.htm
[3] Gabriele Qualizza, Facebook Generation. I “nativi digitali” tra linguaggi del consumo, mondi di marca e nuovi media, EUT Edizioni Università di Trieste, 2013 (p.163).
[4] Si danno per acquisite le ricerche che riconoscono a questo settore caratteristiche di stagnazione tecnologica (il contrario dell’innovazione produttiva) e partono dalle ricerche di Baumol e Bowen (William J. Baumol, William G. Bowen, Performings Arts: the Economic Dilemma, 1966, ristampa 1968, New York, MIT Press), un filone ormai consolidato negli studi di economia della cultura.




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