Stelle fisse | Giuseppe Novello

Istruzioni per non ridere ai funerali

Pubblicato il 20/02/2021 / di / ateatro n. 174

Quando andavo a trovare Novello nella sua abitazione di Milano, Foro Buonaparte 12, poi mi portava a mangiare al Bagutta, che a me non piaceva. C’era un grande tavolo affollato da signori di buona famiglia, i baguttiani, che parevano mariti intenti a godere rumorosamente la temporanea assenza di mogli e amanti e badanti. Non mi divertivo ad ascoltare le allusioni, i pettegolezzi, i giochi di parole a me del tutto estranei e quasi sempre incomprensibili. Novello si rendeva conto del mio disagio, e mi faceva sedere vicino a lui, e lo osservavo: mi pareva un cacciatore intento a non lasciarsi sfuggire la preda, e la preda non erano quei signori che conosceva benissimo, ma le loro parole, i giri di frase, le battute, il movimento delle mani, le esclamazioni, il modo di stare seduti… Credo che Novello registrasse tutto con molta attenzione, per poi servirsene in uno dei suoi disegni dissacranti.
“Bisogna andare in cerca del peggio”, mi aveva detto una volta sorridendo, “io mi nutro di questi scarti”.
Però non sono sicuro che alludesse ai baguttiani.
A Novello mi aveva presentato Piero Gadda Conti, ed eravamo subito diventati amici, tanto è vero che poi mi ha regalato tre delle sue tavole, che conservo come una preziosa rarità.

Giuseppe Novello, Autoritratto (1919)

L’amicizia con Gadda mi aveva stupito. Ho fatto fatica a dargli del tu e a chiamarlo Piero. All’inizio sentivo i ventinove anni d’età che ci separavano, ma soprattutto i suoi modi da signore “di una certa età”.
L’amicizia con Novello, al contrario, mi parve una cosa del tutto istintiva, anche se gli anni erano addirittura trentaquattro. Ma lui era… non so come definirlo, una persona senza età. Non riesco neppure a trovare le parole per descrivere il suo aspetto fisico. Se rifletto con attenzione e cerco di immaginarlo nei luoghi dove più spesso mi capitava d’incontrarlo, non ne ricavo nulla. E so anche perché mi accade tutto questo. Quando mi propongo di ricostruire la sua immagine, e quando faticosamente raggiungo qualcosa che è ancora evanescente e improbabile, ecco che senza poterlo evitare si sovrappone qualche altra cosa che cancella tutto quello che ho cercato di immaginare: pochi tratti di penna, e affiora l’invitato che, arrivato troppo presto alla cena, col suo impeccabile abito nero si rifugia nell’angolino più riposto della ricca sala e aspetta seduto sulla punta di un piccolo tavolino ottagonale marocchino di legno intarsiato, che è certamente l’oggetto più improbabile su cui sedersi. Oppure si fa avanti il laureando in giurisprudenza disperato perché non ricorda più cosa sono il mefio e il morgengabio, e non solo lui, ma anche il tavolino a cui si appoggia si fa piccolo piccolo. O ancora il reduce che, dopo aver raccontato i disastri della ritirata di Russia, si sente dire dalla padrona di casa: “Ma lei li avrà tenuti allegri tutti” e lo sbalordimento è talmente esplosivo che il disegno è come dissanguato e lui sembra precipitare fuori dalla tavola (povero Novello, lui che davvero aveva partecipato a quell’evento insensato). Terribili, quelle figurine appuntite che con violenza si sovrappongono ai miei tentativi di ricostruire l’immagine di Novello, esseri umani quasi sempre fuori posto, angosciosamente desiderosi di trovarsi altrove, tenuti in vita unicamente da una irrefrenabile volontà di scomparire.

Era proprio così, Novello? Sì, era proprio così. Aveva l’insolita capacità di ironizzare su sé stesso, sulle convenzioni del signore di buona famiglia che si guarda con l’occhio di un altro, l’occhio del disegnatore che non perdona, che raccoglie tutti gli scarti, anche i propri, e li mette lucidamente in vetrina.
Proprio per raccontare questo mondo, a me e al regista Gianni Serra è venuto in mente di girare un film su di lui, anzi, sui suoi disegni, utilizzati per costruire una storia che in qualche modo nasce dal titolo di uno dei suoi disegni, la guerra è inutile. Inutile a trasformare le nostre radicate abitudini, per cui i vecchi modi del “prima” si ritrovano tali e quali nel “dopo”, come se nulla fosse accaduto: punto e da capo, appunto.
Punto e da capo era il titolo del film che, nelle nostre intenzioni, doveva essere il primo di una serie televisiva Rai dedicata a storie costruite con i disegni di molti altri disegnatori, a cominciare da Mino Maccari e Saul Steinberg. La Rai era ben disposta, ma dopo Novello voleva a tutti i costi il dolciastro dei fidanzatini di Raymond Peynet, e Gianni Serra, il futuro autore della Ragazza di via Millelire, si è opposto, e tutto è naufragato. Peccato. Ma la mia amicizia con Novello non si è interrotta.
Quando nel 1986 mi sono recato al funerale del critico d’arte Leonardo Borgese, mi sono seduto a un banco non in prima fila della Chiesa milanese di San Vittore al Corpo. Poco dopo è entrato Novello, e si è seduto accanto a me. “Buongiorno, Novello” gli ho detto con voce un po’ velata e sussurrata, con appena un grammo di tristezza, ma nello stesso tempo con quell’impercettibile guizzo di soddisfazione generato dal non sentirsi più solo in quella triste bisogna: c’è Novello, temo di aver pensato, e ci sarà da ridere.
Ma lui, avvicinandosi a me il più possibile per poter parlare a bassa voce e non farsi sentire, con un gesto severo mi ha subito imposto il silenzio: “Devo stare attento, molto attento a tutta la cerimonia: questa è una prova generale. Non voglio farmi trovare impreparato quando toccherà a me”. Sono esattamente le sue parole, non posso dimenticarle; e a leggerle così, sulla carta, non mi sembrano una grande battuta di spirito. Ma dette da lui, un lui che vedevo accanto a me come un profilo appena accennato da quattro righe di penna, il capo piegato in avanti, il mento a punta, la posizione di chi sta seduto sul bordo del banco per la tensione generata dal bisogno di non perdere nulla di quanto sta accadendo davanti a lui, quelle parole le ho subito viste stampate sul fondo pagina di un suo disegno, e già allora, in quel momento, e ancora oggi, e sempre, cerco invano di pensare al titolo da sovrapporre al disegno, quello da mettere in alto in caratteri maiuscoli… Ora mesta, Il controllo del cordoglio, Il candidato, LA PROVA FINALE… Niente da fare, non valgono nulla questi titoli abborracciati da un dilettante.
Due anni dopo, 1988, Giuseppe Novello è morto, ma io non sono andato al suo funerale. Avevo paura di mettermi a ridere.

Quando Giuseppe Novello andava a teatro

Giuseppe Novello

Giuseppe Novello, Cala lentamente la tela: “…e il morto comincia finalmente a capire d’essere morto fuori.”




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InformazioniEduardo Rescigno

Eduardo Rescigno (Milano, 1931) è un musicologo, scrittore e commediografo italiano. Altri post