La forza della tradizione

Una testimonianza di Moni Ovadia

Pubblicato il 10/09/2001 / di / ateatro n. 018

In questi giorni Garzanti pubblica I racconti dello Yiddishland di Ben Zimet, un viaggio attraverso il mondo degli ebrei dell’Europa Orientale attraverso una serie di racconti, fiabe, aneddoti, storielle… Il volume è accompagnato da una testimonianza di Moni Ovadia, che tocca alcuni dei temi ricorrenti in “ateatro”: il racconto, la memoria, il senso e la necessità della testimonianza, e ancora il rapporto tra arte e esperienza di vita, tra arte e storia (sulla cultura ebraica e su Moni, sia in “olivieropdp” sia in “ateatro” potete trovare molto altro materiale…).
Questa conversazione viene presentata su “ateatro” in anteprima.

Conosci Ben Zimet?

Ne avevo sentito parlare già dall’epoca del primo Festival di Cultura Ebraica fatto a Milano al Salone Pier Lombardo nel 1986-87. Ben Zimet stava sviluppando un tipo di lavoro analogo al mio. Poi ne ho perso le tracce, ogni tanto mi arrivava qualche nastro, qualche disco… Ha dedicato la parte centrale della sua attività al mondo della yiddishkeit e per questo lo conoscevo.

Che affinità ci sono rispetto al tuo lavoro?

Io credo di essere un solitario perché ho accolto in tutta la pienezza – e questo l’ha osservato qualcuno un po’ malizioso nei miei confronti – la falsità dal mio approccio: io cerco di restituire il mondo degli ebrei dell’Europa Orientale attraverso un processo totalmente artistico – nel senso tecnico della parola.

Nel senso che alla base del tuo lavoro non ci sono esperienze autobiografiche o radici che rimandano direttamente a quel mondo…

No, assolutamente. E ho accolto quello che implica questa “falsità”. Kantor diceva: “La tragica bellezza del teatro dipende proprio dalla sua falsità.”

Mentre invece Ben Zimet ha delle origine biografiche in quel mondo…

…e credo si sia mosso nella linea che in qualche modo cerca una continuità con il passato. Io assolutamente no: per me c’è quella voragine che è l’Olocausto e io lavoro sull’orlo dell’abisso con l’assoluta consapevolezza che quel mondo non esiste più. Parto dall’assunto che non si possa più fare quello che si faceva prima, come lo si faceva allora. C’è un altro pubblico: persino chi viene da quel mondo sa che oggi si sarebbe evoluto, che oggi non ci sarebbe più lo shtetl con la sua poesia stralunata, povera e perseguitata. Tuttavia ci sarebbe stata una continuità culturale – anche se quell’arte, quel teatro sarebbero diventati un’altra cosa, come è successo a tutte le tradizioni, anche a quelle delle minoranze, che però non hanno subito quella vicenda così “assoluta”. Io ho preso coscienza di questo fatto. È una delle ragioni per cui ricevo da certi guru del genere yiddish attacchi molto violenti.

C’è un elemento che, almeno a giudicare da questi Racconti dello Yiddishland, accomuna il tuo percorso a quello di Ben Zimet. Questo libro raccoglie molte delle più belle storielle ebraiche – alcune già note, riprese da una tradizione che si sta stabilizzando – e le divide in due blocchi: nel primo ci sono le esilaranti vicende degli sciocchi, ambientate a Khelm, e quindi la prima parte è – diciamo – più direttamente comica. Il secondo blocco si fa più serio, raccoglie storielle e favole dal tono più alto. C’è un passaggio da temi puramente comici a tematiche più “serie”, che è un po’ anche il percorso che hai seguito tu nell’introdurre in Italia questo mondo e la sua cultura.

C’è un elemento di comune risonanza. Perché, con tutto il rispetto per le barzellette, la storiella ebraica è un’altra cosa, arriva da un altro mondo. L’approccio è diverso, gli scenari che crea sono diversi. È profondamente inscritta nella cultura yiddish, dove non c’è differenza fra alto e basso. Per esempio, nel terzo pasto dell’uscita del Sabato, o in generale negli incontri sabbatici, sia nelle feste sia in quelli conviviali, raccontare storielle fa parte dell’intero processo. L’umorismo ebraico non ha una funzione di puro divertimento ma di pensiero. Mi sono permesso di definirlo “critica della ragion paradossale”, perché attraverso il paradosso illumina la stupidità del mondo, l’insensatezza della violenza. Tuttavia questo paradosso è collocato in una dimensione calda che crea uno stato di empatia, una simpatia e una risonanza con ciò che vuoi comunicare. Questa è la grande funzione dell’umorismo. Il suo statuto è una vertigine di intelligenza. Ben Zimet ne è profondamente consapevole, è come se dicesse: “Ci sono queste storielle, ma fanno anche parte di un patrimonio dallo statuto altissimo.” Anche il Talmud è un’opera umoristica, lo dice il più grande studioso vivente del Talmud, din Steinsalz: “Tra le altre cose il Talmud è una grande opera di umorismo.”

In che senso?

Il Talmud è un libro non-libro. Non doveva essere scritto. Perché quello che viene chiamato Talmud è in realtà quello che noi ebrei chiamiamo Torah-she-bealpeh, la Bibbia che è sulla bocca; mentre l’altra è quella ricevuta dall’Eterno, la Torah-she-bikhtav, quella che è scritta. La relazione fra le due crea l’ebraismo, attraverso un immenso pensiero ermeneutico che non lascia fuori nessun aspetto dell’esistente. Il Talmud è stato scritto attraverso le discussioni dei maestri: sono argomentazioni di grande sottigliezza, si tratta di spaccare il capello non in quattro ma in diecimila parti, proprio per impedire che l’idolo dell’argomentazione rigida e ossificata sconfigga il pensiero. Ma tutto questo ha grandissimo bisogno dell’umorismo, una delle armi attraverso cui si mostra la debolezza di un pensiero. L’umorismo è la forza di un pensiero debole.
Provo a spiegarmi con un esempio: la relazione fra l’aggressore e l’aggredito. L’antisemita dice all’ebreo: “Il mondo va a rotoli e la colpa è tutta degli ebrei.” L’ebreo risponde: “Sì, degli ebrei e dei corridori ciclisti.” “E perché dei corridori ciclisti?” “E perché degli ebrei?” È un meccanismo tipico che serve per illuminare un terzo piano imprevisto, e questo attiva il pensiero.
Ma nella tradizione ebraica ci sono anche storielle folgoranti contro la rigidità del comandamento. Ce n’è una per cui impazzisco, sul comandamento: “Onora il padre”. Un padre rientra a casa sfatto dal lavoro e i suoi tre cuccioli – uno di tre, uno di cinque e uno di sette anni – gli si precipitano addosso, lo baciano, gli scompigliano i capelli, gli fanno grande festa. E lui è così stanco eppure così orgoglioso di questi figli. A un certo punto dice: “Bambini, chi lo va a prendere un bel bicchiere di acqua al papà?” Allora il più grande dice: “Io sono il maggiore, dunque tocca a me questo kavod, questo onore etico, di ottemperare a questo comandamento: “Onora il padre”.” E il medio dice: “Io do tutti i miei risparmi, cinque rubli, ma io voglio questo kavod.” E il piccolo si alza sulla sedia e dice: “Io darò tutti i miei risparmi dei prossimi dieci anni – ma io voglio questo kavod.” E si azzuffano. Quando capiscono che non possono venire a una conclusione litigando, chiedono al padre il permesso di discutere la questione. E come dei bravi maestri della Torah si mettono in un angolo e cominciano una serrata discussione con i pro e i contro e tutte le sottigliezze. Il padre si gonfia d’orgoglio, come un tacchino, nel vedere i suoi bambini discutere. Dopo venti minuti, quando lui ormai è divorato dalla secchezza delle fauci, i tre fratellini ritornano e il grande, a nome del comitato dei fratelli, dice: “Papà, noi abbiamo discusso la questione molto accuratamente e abbiamo deciso: questo è per noi un onore troppo grande! Va’ a prenderti l’acqua da solo.”
Che cosa c’è in questa storiella? Naturalmente c’è l’aspetto umoristico, ma racconta anche che nessun comandamento dev’essere rigido: al contrario, dev’essere attivo nel suo processo di relazione con l’essere umano. L’ordine è: “Vivrai in essi.” I comandamenti sono per la vita e non la vita per i comandamenti. E nessuno ha risparmiato l’umorismo, e nessuno è offeso dall’umorismo. I rabbini sono quelli più presi di mira. C’è una frase umoristica – potrebbe essere una storiella – di un grande maestro di 2000 anni fa, rabbi Simon, che dice: “Se una comunità non è contro il suo rabbino, quella comunità non è una vera comunità e quel rabbino non è un vero rabbino.”

Questa in parte è la differenza fra quello che noi chiamiamo “umorismo da oratorio” e l’umorismo ebraico. Estremizzando, nella tradizione cattolica l’umorismo costituisce uno sfogo per tutta una serie di pulsioni che vengono in qualche modo conculcate o frenate e che trovano nella barzelletta, nella battuta, nella parodia una valvola di decompressione. Ma in questa tradizione i fondamenti non possono e non devono mai essere messi in discussione. Nel caso dell’umorismo ebraico, mi sembra che si tratti proprio di mettere in discussione tutti i fondamenti.

Non ci sono dogmi nell’ebraismo. Ci sono atti di fede, non dogmi. Si può essere ebrei ortodossi e insieme atei. Prendiamo per esempio il Midrash, che è la forma più poetica, più lirica, più ardita di ermeneutica. Ci sono dei Midrashim che fanno tremare le gambe. Per esempio ce n’è uno che si intitola Dio ride. Riferisce di alcuni maestri che discutevano di un punto della legge. Discutono discutono discutono e alla fine, esasperato, rabbi Eliezer, che era considerato il più sapiente tra i maestri, dice: “È inutile che discutiamo, ho ragione io su questa questione”, e per dimostrare la sua ragione indica un carrubo che si sradica. Allora gli altri maestri dicono: “Un bel giochino, bene, però la regola è che si discute, che ti siedi e discuti.” Altri giorni di discussione, i maestri sono ancora più esasperati, e alla fine rabbi Eliezer dice: “Siete dei testoni, ho ragione io.” Indica un torrente e il corso dell’acqua cambia direzione. E gli altri: “Sei un grande taumaturgo, però siediti e discuti.” Ricominciano, e lui continua con i miracoli: indica la sinagoga, la schola, e – dice il Midrash – “i muri della sinagoga cominciano a crollare.” Allora un altro dei rabbini, rabbi Jehoshua, si alza e strilla: “Ma cosa c’entrano i muri della sinagoga? Tu sei rabbino e i maestri discutono di legge.” Allora, dice il Midrash con straordinario senso dell’umorismo, “per rispetto a rabbi Eliezer i muri erano un po’ crollati, ma per rispetto a rabbi Jehoshua non crollarono del tutto!” Miracolo dialettico fra i due maestri! Alla fine, cosa fa rabbi Eliezer? Esasperato, chiama a testimonianza il Cielo. Esce una voce celeste che dice: “È vero, su questo punto ha ragione rabbi Eliezer.” Allora rabbi Yirimia schizza in piedi e urla un versetto del Deuteronomio, correndo nel consesso: è Deuteronomio 30,12, “Non è nei cieli.” Che cos’è il commentario? Il Talmud dice che la legge è stata data sulla terra, agli uomini per gli uomini, e contiene in sé i principi che regolano i rapporti umani: libera discussione e voto della maggioranza. Non c’è bisogno di ascoltare voci celesti. E il Talmud racconta che un giorno uno degli altri rabbini che era presente, rabbi Nathan, incontrò il profeta Elia (che come sappiamo è asceso al cielo con il carro di fuoco e dunque sta sempre dalle parti del Padre Eterno) e gli domandò: “Che cos’ha fatto il Signore benedetto nel momento in cui rabbi Yirimia si è messo a strillare “Non è nei cieli?” “Dio è scoppiato a ridere e ha detto: “I miei figli mi hanno sconfitto, i miei figli mi hanno sconfitto”.” È la vertigine, il Padre Eterno che ride di sé stesso… All’interno di questa prospettiva, non c’è limite: nell’ebraismo la balbuzie di Mosè è irrisa, la stonatura di Abramo è irrisa… Del resto, come nasce l’identità ebraica? Dice il rabbino Ouaknin, di cui ho curato l’edizione italiana di un libro [Così giovane e già ebreo. Umorismo yiddish, Piemme, Casale Monferrato 1998 – n.d.r.]: “L’identità ebraica è un éclat de rire, uno scoppio di risa.” Infatti chi è il primo ebreo per nascita? Isacco. E cosa vuol dire Isacco? “Colui che riderà.” E perché ha questo nome? Perché quando arriva la notizia che Sarah, sterile novantenne, e Abramo, centenario appena circonciso, avranno un figlio, i due scoppiano a ridere. È esattamente l’anticipazione del parto miracoloso di Maria, 1500 anni prima. Tuttavia, mentre lo scenario mariano è soffuso di una luce, di un’aurea di candore…

…nessuno immagina la Madonna che ride al momento dell’Annunciazione…

Il grande Troisi ha potuto farne una parodia da cabaret, ma siamo in un altro ordine. Nella Bibbia la storia è chiara: quando Dio, tramite i tre arcangeli travestiti da viandanti, gli dice: “Avrete un figlio”, Abramo si mette a ridere, si butta per terra, si scompiscia dalle risate. Anche Sarah scoppia a ridere e l’arcangelo le chiede: “Cosa fai, ridi?”, e Sarah risponde “No, non è vero”, e lui: “No, ti ho visto”… È uno strano scenario…

C’è un’ampia discussione sulla differenza fra la risata di Sarah e quella di Abramo…

…poi il Padre Eterno si presenta ai due quando il parto miracoloso è avvenuto, e allora il riso è l’utopia, la capacità di ridere di sé stessi. Il Signore dice loro: “Avevate tanto da ridere e dunque chiamerete questo figlio Colui Che Riderà.” Ma attenzione alla riflessione di Abramo: “Le genti rideranno di me perché ho riso di questo.” Così Abramo inaugura l’elemento del ridere di sé come elemento fondante e costituente di un cammino identitario. Infine c’è Isacco, che dovrebbe essere sacrificato da Abramo sul monte: Colui Che Riderà va al sacrificio ma non viene sacrificato. Ecco l’ebreo: il sopravvissuto che riderà.

Prima parlavi della legge scritta e della legge orale e del fatto che la Torah non avrebbe dovuto essere scritta. Da un certo punto di vista anche queste storielle – come quelle che hai raccontato adesso – non dovrebbero essere scritte, perché fanno parte di un patrimonio orale. Perché a un certo punto vengono scritte? Nella seconda parte del libro di Ben Zimet ci sono sia storielle desunte dalla tradizione orale, tra fiaba e mito, sia brani di grandi scrittori. Per esempio c’è un brano di Kafka…

L’umorismo kafkiano, chi l’ha capito? È un’operazione molto acuta e molto lodevole, quella di Ben Zimet…

Tra l’altro il brano di Kafka che cita Ben Zimet è Il messaggio dell’Imperatore

Il Messia: se volessimo raccontarlo con una storiella sarebbe proprio Il messaggio dell’Imperatore di Kafka. Anch’io l’ho usata in un mio spettacolo, perché secondo me è la sintesi dell’attesa messianica ebraica: il Messia è partito, c’è, ma non arriverà mai. È in permanente ritardo. Tra l’altro, alcuni maestri un po’ più birichini interpretano così l’atto di fede nella venuta del Messia: “Io credo con fede ferma nella venuta del Messia. E anche se lui indugia, io lo aspetterò tutti i giorni che vengono.” Qualcuno dice che la modalità ebraica del messianesimo è questa: il permanente indugio, “tu devi costruire l’attesa”. È stato lungimirante inserire quel brano. Come ha notato un grande studioso come Giuliano Baioni, Kafka non è leggibile fuori dall’ebraismo. Al di fuori dell’ebraismo, non si poteva capire come, in una situazione apparentemente così drammatica come quella del Processo, nella prospettiva da incubo delle società totalizzanti – nazismo e stalinismo -, Kafka leggesse le prime cento pagine del romanzo ridendo, con il fou rire. Perché? Perché l’aspetto umoristico non va mai disgiunto dall’angoscia: è l’elemento che impedisce che l’angoscia si costituisca come idolo e oppressione.
È per questo che alcuni ebrei sono arrivati a ridere fino sulla soglia dell’abisso. Le storielle nel periodo nazista sono proliferate a centinaia. Sono emerse persino nella parte più oscura del nazismo… Sono cose che nessuno racconta, per ritegno e per delicatezza, ma anche per evitare di essere equivocato: ci vuole una concezione dell’umorismo come quella ebraica – autodenigratoria, altissima e antiidolatrica – per collocare storielle come queste nel loro contesto. Ed è impossibile farlo se uno scotomizza l’aspetto dell’indagine spirituale di quell’umorismo, perché quelle storielle mirano sempre a mostrare l’immenso splendore della vittima – non in quanto santo, ma proprio in quanto collocato nella posizione di non avere scelto la violenza e di aver preferito il pensiero. Perché i maestri dell’ebraismo sono grandi eroi del pensiero.
Riferisco una storiella del periodo nazista, in un contesto dove è possibile fare questo discorso. Rabinovich è in un ufficio della Gestapo e lo stanno massacrando di botte, lo stanno facendo letteralmente a pezzi perché vogliono sapere dove sono i suoi soldi, o i suoi parenti. A un certo punto squilla il telefono e l’ufficiale nazista – lo sbirro della Gestapo – sente una voce polacca che farfuglia frasi trafelate. Non capisce, diventa isterico, e allora non sapendo come fare tende la cornetta a Rabinovich e gli ordina: “Rabinovich, senti chi è.” Il povero Rabinovich rimette insieme le ossa. Tutto pesto e sanguinante si avvicina al telefono, si siede sulla sedia dello sbirro, con uno sforzo disumano incrocia i piedi sulla scrivania, prende la cornetta e con voce disfatta dice: “Hallò, qui parla Rabinovich della Gestapo, dica pure.”
È una storia sublime! Me l’ha ha raccontata Michel Monnheit, studioso di ebraismo e figlio di due sopravvissuti. Ancora una volta è il paradosso, questa risata che è la conquista della consapevolezza. In Danubio, nel capitoletto “Il Kitsch del male”, dedicato a Mengele, Magris spiega che vittime e carnefici non possono stare sullo stesso palcoscenico: “Le vittime di Mengele sono figure di una tragedia, Mengele è una figura da polpettone” (p. 107). Perché quello che stupisce dei nazisti è che non erano dei titani del male, erano gentucola, quando sono stati catturati hanno cominciato a piagnucolare: “Obbedivo agli ordini”, non ce n’è uno che si sia assunto la grandezza del male, i più coraggiosi si sono suicidati… Erano omuncoli, contabili…
Secondo me in questa chiave diventa possibile capire lo scopo dell’umorismo ebraico e perché noi – Ben Zimet come me e come altri – siamo assillati a ritornare su queste cose. È il motivo per cui ci impegniamo nella riconquista di quella tradizione, in un lavoro di tessitura che abbiamo iniziato e che altri continueranno in futuro – in yiddish si dice: “di generazione in generazione”. Come insegna la Bibbia: “Ne parlerai”, perché qui si tratta di ritessere ciò che è stato squarciato, e ci vorranno migliaia di anni. Non illudiamoci.
Quando sento le polemiche sul film di Benigni [La vita è bella – n.d.r.], mi dico: “È solo un film, è solo un regista con la propria sensibilità, il film può piacerti o no, ma non può sminuire o incrementare il valore o il significato della Shoah.” E poi – soprattutto – non si può togliere la responsabilità agli individui. Molti mi hanno chiesto: “Ma lei raccontando le storielle non corre il rischio di essere equivocato?” Ma se avessi paura di essere equivocato mi metterei un sigillo sulla bocca e tacerei per sempre. Il mondo è pieno di ignoranti, di gente in malafede o di malvagi, ma guai se prendiamo questa strada. Noi siamo responsabili di ciò che diciamo, ma chi ascolta è responsabile di come lo sente. Io non posso sostituirmi alla responsabilità di chi mi ascolta, altrimenti concepirei un mondo in cui devo dichiarare tutta una parte di popolazione minus habens e interdirla… Per amor del cielo!

Voglio tornare sul rapporto tra la tradizione orale e la sua sedimentazione letteraria. Prima avevo citato Kafka, Ben Zimet cita anche Shalom Aleychem. A un certo punto questa tradizione orale, che vive nei villaggi dell’Europa orientale, diventa letteratura. Che cosa guadagna e che cosa perde in questo passaggio?

Secondo me non è una questione di perdita o di guadagno, ma è bene mantenere distinte le due cose. Io per esempio ho cercato di preservare l’oralità in quello che scrivo, però con la consapevolezza che non sostituivo l’oralità. È stata una scelta di scrittura. Anche questa è ovviamente un’operazione falsa, e però nella consapevolezza della sua falsità può avere delle iridescenze interessanti. C’è un bisogno di oralità immenso, non è il caso che nel nostro teatro vari personaggi – non diciamo Dario Fo, il capostipite e grande maestro – ma Paolini, io stesso per la mia parte, Baliani e oggi questo straordinario narratore che è Ascanio Celestini, lavorino in questa direzione. Dobbiamo continuare con il racconto: io non faccio altro, queste storie le racconto e le riracconto in ogni occasione. Se uno mi chiede: “Moni, cantami una canzone!” mi viene da scappare. Le serate in cui quello che sa cantare si mette lì con la chitarra e va avanti tutta la sera, si può fare una tantum perché qualcuno ha voglia di farlo, ma è una forma che non amo. Il racconto di una storiella è diverso, perché qui stiamo ragionando su una cultura, non è cantare Dieci ragazze per me… Raccontare fa parte della natura del popolo ebraico. Capisco perché queste storie dovrebbero essere raccontate nelle scuole, perché non si perdano. È un grande esercizio. E mi sono reso conto di quanto questo patrimonio sia cruciale in un mondo in cui la parola ci viene depredata. Allora anche queste raccolte di racconti servono a riattivare questa facoltà: leggere un racconto può forse riattivare la voglia di raccontare. Elie Wiesel ha detto: “Dio ha creato l’uomo perché ama sentire raccontare storie.” Senza questa capacità di raccontarci, siamo spacciati. E lo siamo anche se ci tolgono questa facoltà e ne fanno un mercato, cioè se il racconto diventa un prodotto televisivo. Attenzione, non è che la televisione non possa raccontare: il mezzo televisivo lo può fare benissimo, ma il sistema televisivo tende a trasformare tutto in feticcio o in merce. Claude Lanzmann ha dimostrato cosa si può fare con delle persone che raccontano semplicemente la propria vicenda. Il suo film è il capolavoro ineguagliato, sulla Shoah non è facile dire altro dopo Shoah di Lanzmann e Memoria di Ruggero Gabbai, che si muove sulla stessa linea. Perché un film è solo un film: può essere bello o brutto, può piacermi o non piacermi, ma è solo fiction.

Quindi rispetto a qualunque creazione letteraria o artistica, l’esperienza personale, la testimonianza di vita, hanno un valore in più, che il racconto riflette con maggiore autenticità o forza?

È una questione molto complessa, perché il raccontare è anche arte: non tutti sanno raccontare.

Chiaro, però prima spiegavi la differenza tra il film di Lanzmann, dove vedi delle persone che raccontano la loro vita, e quello di Benigni, che può essere bello o brutto ma resta solo un film, non è Benigni che racconta la sua vita.

Esattamente. Ma non è che con questo voglio delegittimare il prodotto artistico, figurati, è il mio mestiere. È che non possiamo attribuirgli responsabilità che non può avere. Anche Primo Levi in un certo senso ha fatto un prodotto artistico, perché solo la pietas artistica ci permette di accostarci a quell’evento. Se ci prendessero per mano e ci aprissero una porta e vedessimo un Lager, dopo quindici giorni probabilmente ci troverebbero impiccati. Perché quella realtà non si può reggere – paradossalmente solo chi ci è stato “dentro” può reggere l’uscita dall’inferno, perché nel proprio percorso trova un senso terribile e forte. Ma chi vedesse questo orrore dall’esterno… È capitato all'”Angelo di Pechino”, l’infermiera che assisté i poveri cinesi durante l’invasione giapponese in cui furono commesse efferatezze inenarrabili. Lei non venne scalfita neppure con un graffio, è ritornata, ha scritto queste cose e si è suicidata. Vedere all’improvviso tutto questo e rendersene conto, sarebbe intollerabile. A renderlo tollerabile è per noi la pietas artistica – ma in questo senso anche il racconto è una mediazione “artistica”. Il racconto di quei testimoni non è un racconto, una fotocopia della realtà: è la loro elaborazione, una presa di distanza, con una sorta di epos assoluto della loro stessa vicenda. Anche se resta definitivamente una cosa diversa dall’operazione artistica alla Spielberg: non puoi far vedere un bambino a cui un nazista spara in testa e pensare che sia come vedere un nazista che spara in testa a un bambino. Nessuno di noi è tanto pazzo da crederlo. Mi sconcertò l’affermazione di una mia amica che fu deportata dal ghetto di Lodz ad Auschwitz a diciassette anni. Vedendo il film di Spielberg [Schindler’s List – n.d.r.] ha detto: “Non ci sono neanche trenta secondi della mia angoscia in quel film.”

Mentre nei libri di Primo Levi la ritrovava questa angoscia?

Immagino di no. Perché noi riusciamo a leggerli, il libri di Primo Levi. Altrimenti non ci riusciremmo. È proprio questa la sua immane grandezza: essere riuscito a scrivere quello che ha scritto avendolo vissuto. Quando sento i testimoni che raccontano, sono ogni volta commosso. Quando partecipo con loro a un incontro davanti ai giovani, cerco di sottolineare il grande e immenso dono che ricevono, perché riescono ogni volta a raccontare pur strappandosi le viscere. La grandezza di Primo Levi è di essere stato in grado di disegnare un’opera di una classicità totale senza essere sopraffatto dal dolore. Il racconto, l’oralità non può essere a mio parere sostituita da altro. Quando dico che Lanzmann è meglio di Spielberg, non voglio dire che la verità del racconto è meglio della fiction. Ma parlare di questo argomento attraverso un’operazione di tipo artistico pensando di averlo esaurito è impossibile, secondo me. Invece il lavoro artistico si svolge proprio sull’abisso che si apre fra l’impossibilità di raccontare e la necessità di farlo. Per esempio, con il mio Dibbuk ho scelto di fare un rito: non ci sono nazisti sulla scena. E ho fatto questa scelta proprio perché il rito rimanda a un’urgenza dell’artista di esprimersi, ma non pretende di spiegare come avvenne quel fenomeno.

Ma a questo punto si apre un altro problema, ed è poi quello che emerge nell’ultimo racconto ripreso da Ben Zimet. Il giorno in cui l’ultimo testimone sarà scomparso e non ci saranno più testimoni diretti di quello che è successo, quando nessuno potrà più provare quell’angoscia, che cosa succederà al racconto?

Nessuno di noi ha visto l’apertura del Mar Rosso, però lo raccontiamo ogni anno, in tutte le celebrazioni del Pesach, la Pasqua ebraica. Perché i maestri ci dicono: “Guarda che sei stato liberato.” Anche Auschwitz è un Egitto, e in Egitto chissà quante volte ci ritorneremo, perché ci sono tanti Egitti e ci sono pezzi di Egitto persino in Israele. È per questo che devi farti carico della generazione che segue e continuare a raccontare… Le generazioni che seguiranno avranno altre modalità, che però sono inscritte nella stessa linea. In un cammino etico c’è anche questo: ognuno dà il suo contributo, avendo però la consapevolezza che certe cose non le avremo più, è inutile illudersi. Proprio questa consapevolezza ha attivato il mio teatro: è inutile illudersi che ci sia lo shtetl, è inutile rappresentare i mendicantucci con le pezzucce eccetera. Se invece prendiamo quel mondo per creare una forma artistica altra, allora ci assumiamo in pieno la nostra responsabilità.
Oggi tutti noi dobbiamo raccontare, ebrei e non ebrei. Noi ebrei in particolare vogliamo comunicare questo: “Ne parlerai.” È anche uno dei grandi problemi della nostra storia. La cattiva coscienza della sinistra dice: “Non se ne parla più, tutto questo appartiene al passato.” No, invece: se ne deve parlare, con le modalità di oggi. Noi andiamo avanti e lo faranno i nostri figli e i nostri nipoti: guai a noi, saremo dannati se dimentichiamo le sofferenze di milioni di umili, il loro desiderio di riscatto. Certo, non possiamo metterci a fare la retorica, ricominciare a cantare le canzoni anarchiche sulle arie del Nabucco o di Fratelli d’Italia, “Vieni o maggio t’aspettan le genti…” È chiaro, non siamo più nell’Ottocento, siamo passati oltre, ma questo vuol dire che quei temi non ci interessano più? Sono i quattro o cinque grandi temi sui quali si gioca il futuro dell’uomo. Il problema di raccontare la Shoah si porrà di generazione in generazione e ognuno dovrà risolverlo con la sua sensibilità, ma anche con la consapevolezza che il tempo cammina, che tutto diviene obsoleto… È nella natura delle cose, altrimenti le generazioni successive non saprebbero cosa fare, sarebbe stato tutto detto.

Dunque mi sembra che ci sia la necessità di parlare della Shoah e del suo significato anche al di fuori del mondo ebraico, senza chiudersi in una presunta purezza del discorso.

Prima di tutto rifiuto questi atteggiamenti filologici su una cultura che nasce anche dalla contaminazione. E poi secondo me noi dobbiamo parlare della Shoah all’esterno, perché gli ebrei hanno ricevuto la Torah per portarla al mondo. Il sacerdozio ebraico è portare la Torah – il monoteismo – nel mondo. È per questo che gli ebrei sono stati ammazzati, non certo per i nasi, per l’economia, per tutte queste stupidaggini… I tiranni hanno sempre odiato gli ebrei: in una democrazia matura non esiste l’antisemitismo, al massimo ci possono essere forme – come dire – “ragionevoli” di sarcasmo giudeofobico. L’antisemitismo è legato al fenomeno tirannico, perché l’ebreo è l’unico che non piega il ginocchio davanti a chicchessia, perché ha un solo padrone: è un padrone che non si vede, il suo nome non si può nemmeno pronunciare. E l’ebreo non si inginocchia neanche più davanti a Lui. È per questo che Hitler in un’intervista poco conosciuta disse: “O noi o loro.” Sapeva che finché ci fosse stata in giro un’oncia di spirito ebraico, lui non sarebbe stato al sicuro. C’era già stato qualcun altro, molto tempo prima, che voleva sterminare tutti gli ebrei in Persia: il famoso Hamman, il ministro del re persiano Assuero, come racconta il libro di Ester. Perché voleva sterminarli? Perché tra tutti i dignitari Mordecai l’ebreo era l’unico che non si inginocchiava quando lui entrava. Che cosa voleva dire? Non riconosceva il potere. Abramo è l’uomo che spezza gli idoli, che sono la forma cultuale della tirannia, è il mediatore religioso del processo tirannico, che più tardi assume le forme sofisticate dell’ideologia, del partito eccetera. Abramo dice che non ci sono padroni per l’uomo, che l’uomo è libero, che l’essere umano è santo, intoccabile e inviolabile. Come possono i tiranni non odiarti per questo? Spezzi tutti i loro giochi, dichiari che gli esseri umani sono uguali perché hanno un solo padrone – l’Altissimo – e hanno un solo genoma, Adamo. Se ne sono accorti un po’ tardi, gli scienziati. Ma quel genoma è anche un genoma etico: nessuno può dire “il mio progenitore era migliore del tuo”.
Dobbiamo avere la piena consapevolezza di ogni piccolo tassello. Ben Zimet ha seguito questo percorso, dal witz alla favola, vi ha messo qualche racconto…

È andato anche a ricercare in un patrimonio orale di miti e di favole molto antichi, accostandoli a forme letterarie più recenti…

E arriva a Kafka, per fare capire che siamo nello stesso contesto. E per farlo va contro la logica dei generi, che è totalmente estranea allo spirito ebraico. Perché il teatro del Novecento, il teatro moderno, nasce con un contributo fondamentale della scena della yiddishkeit? Perché nella yiddishkeit si passa dal racconto al canto e alla danza, non c’è soluzione di continuità, non c’è la logica aristotelica. Questa divisione non appartiene all’ebraismo: in sinagoga mangi, dormi, preghi, c’è il trasporto mistico, la serietà più estrema, e subito dopo ridi. Questo atteggiamento corrisponde all’urgenza della vita, che è al centro del sistema etico ebraico. E la vita non può essere compartimentata, ha un movimento irresistibile. E tu devi assumerti le tue responsabilità sulla vita, ma non possono essere schematizzate a priori dal potere, da un qualunque potere. È così che quando vai in sinagoga la gente parla, mangia, litiga… vive!
La solennità non può diventare un laccio, c’è il momento di grande solennità e concentrazione, ma poi c’è il momento dove si ride. Guai al momento in cui si diventasse lugubri! Si vedevano – e si vedono ancora – questi ebrei vestiti di nero, tutti pensavano che fosse gente lugubre: invece balla, canta e celebra la vita in tutto quello che fa. Per chiarire il non moralismo ebraico: come ebreo, tu hai 613 precetti da osservare, ma puoi trasgredirli tutti se c’è un vero pericolo di perdere una vita umana. Altrimenti a cosa servono tutti quei precetti? E perciò ridere e soprattutto ridere di sé stessi è uno dei grandissimi strumenti della cultura ebraica: ha una funzione antiidolatrica.
Ecco perché l’umorismo è connaturato all’ebraismo ed è anche uno dei suoi strumenti più preziosi. Se l’ebraismo perdesse questa sua capacità – faccio un’affermazione apodittica – diventerebbe inesorabilmente idolatrico. E cadrebbe nell’idolatria dell’idolo peggiore: l’idolo che fai di te stesso. Guarda che cosa combinano a Hebron con le tombe dei patriarchi… Invece Mosè si è fatto seppellire nel deserto, di lui non c’è più traccia, resta la grandezza di un balbuziente che ha tenuto testa al Padre Eterno e al Faraone. Ma, per esempio, con quale argomentazione Mosè ha salvato noi ebrei dall’ira del Padre Eterno dopo l’episodio biblico del Vitello d’oro? “Eh”, gli ha detto, “hai preso questa masnada di sbandati dementi, e cosa ti aspettavi? Delle mammole?” C’è un Midrash che racconta di questa vicenda, che per me è molto importante. Un re sposa una schiava, e il contratto lo firma il tutore della schiava, come se fosse il padre della ragazza. E tre mesi dopo che il matrimonio è stato celebrato in pompa magna, il re vede che questa schiava fa la porca con tutti i cortigiani e si dà a gozzoviglie, a orge, e allora vuole ammazzarla. Arriva il tutore della schiava e chiede: “Che cos’è questa storia?” “È una porca schifosa, una fedifraga.” E il tutore: “Maestà, non sapevi dove prendevi questa donna? Che cosa ti aspettavi da lei? Sapevi attraverso quali sofferenze e quali dolori era passata…” Allora il re: “Che cosa vuoi dire? Che dovrei riprovarci?” “Penso di sì.” E allora il re dice al tutore: “Be’, riscrivilo tu il nuovo contratto, questa volta io mi limiterò a firmarlo.” Così forse sono andate le cose fra l’Eterno e Mosè: il popolo ebraico era la meretrice e la sposa, e sembra che la nuova Torah l’abbia scritta Mosè… Allora capisci che l’ebraismo si muove continuamente nella logica del paradosso umoristico. È una delle grandezze del Talmud: impedisce che la dimensione del tetragramma ineffabile che è il divino nell’ebraismo venga sostituito con degli uomini, o con un uomo. Persino l’umorismo nei confronti del Padre Eterno viene esercitato perché quella dimensione del divino non diventi un idolo.

Dichiarazioni raccolte da Oliviero Ponte di Pino

 

Moni_Ovadia

2001-09-10T00:00:00




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