Le regole dell’innovazione

(Quasi) trent'anni di storia del Crt di Milano

Pubblicato il 15/03/2002 / di / ateatro n. 031

Il Crt ha ormai alle spalle diversi decenni di storia, durante i quali ha accompagnato l’evoluzione delle nostre scene, attraverso ospitalità, produzioni, rassegne, convegni… Inoltre grazie a un forte peso politico e istituzionale e in virtù del proprio progetto culturale – che si è ovviamente modificato nel corso del tempo ma che probabilmente segna la sua più profonda ragion d’essere – ha svolto un ruolo di regolazione e di controllo nell’ambito dell’intero settore della ricerca.
A questo punto, visto che i diretti interessati non lo fanno, è forse giunto il momento di provare a raccontare la storia del Crt di Milano, forse la più prestigiosa (e potente) – istituzione italiana nel settore – piccolo ma assai vivace – del teatro di ricerca. Anche perché, dopo le polemiche che hanno investito di recente il Crt – vedi gli scorsi numeri di “ateatro” e la discussione sui giovani che ha coinvolto tra gli altri Renato Palazzi (un critico che, a quanto ne so, vede gli spettacoli che recensisce), Federica Fracassi e lo stesso fondatore e presidente del Crt, Sisto Dalla Palma – può forse essere utile cercare di inserire la discussione in un contesto più ampio.
Quelli che seguono sono solo alcuni appunti stesi frettolosamente, a memoria, senza verificare più di tanto date e dati, materiali e programmi delle successive stagioni. Sono il frutto di una costante attenzione di spettatore e dunque, anche negli errori e nelle omissioni, possono risultare sintomatici. (Devo ringraziare Renata Molinari che ha letto il testo e mi ha dato diversi preziosi suggerimenti: ma la paternità di errori e omissioni è del sottoscritto). Le imprecisioni (anche per mancanza di tempo – ma se avrete la pazienza di arrivare in fondo capirete che per me queste riflessioni hanno una loro attualità) sono probabilmente numerose, e sarò grato a chiunque mi aiuterà a eliminarle. E ovviamente qualunque approfondimento, precisazione, correzione, è gradito e verrà ospitato nei prossimi numeri di “ateatro”.
 
Il Crt – fondato nel 1974 da Sisto Dalla Palma con un gruppo di lavoro interno all’Università Cattolica di Milano – si contrappone fin dagli inizi in maniera polemica, e con prese di posizione spesso esplicite, al Piccolo Teatro, che fino a quel momento rappresenta in Italia l’unico modello di teatro pubblico. In quello stesso periodo nascono a Milano altre realtà che cercano alternative all’involuzione degli stabili e alla loro incapacità di rispondere alle sollecitazioni della realtà sociale da un lato e della comunicazione teatrale dall’altro: il Pier Lombardo, che reagisce soprattutto alle chiusure nei confronti della drammaturgia italiana e in particolare di Testori; il Teatro Uomo (che poi diverrà Teatro di Porta Romana) che dà spazio alle realtà delle cooperative (che rispondono alle tensioni politiche ed estetiche del ’68) e alle nuove tendenze della scena (almeno in parte); il Teatro dell’Elfo, che sta nascendo e crescendo in quegli anni e troverà una sede stabile per una giovane compagnia con forti legami “generazionali”; il Teatro Verdi, che cresce intorno all’esperienza del teatro per l’infanzia del Buratto; e infine l’Out Off, attivo nel campo delle nuove tendenze e della contaminazione tra le arti.
In questo scenario, il Crt punta decisamente sull’area della ricerca e sulla consapevolezza che il teatro – almeno un certo teatro – è destinato a una élite, non per censo ma per scelta (rinunciando dunque a ogni opzione nazionalpopolare o esplicitamente giovanilistica), e che solo attraverso questa scelta il teatro può (ri)trovare il proprio senso e la propria necessità.
 
Per ripercorrere l’evoluzione del Crt, può essere utile dividere la sua storia in tre fasi. Nella prima, dalla nascita fino alla metà degli anni Ottanta, a caratterizzare la programmazione sono le ospitalità internazionali. Soprattutto nella gloriosa sala di via Dini sfilano personalità di altissimo livello. Grotowski e Barba, il Living e Meredith Monk, Tadeusz Kantor sono i nomi più significativi in un’opera di sistematica sprovincializzazione della scena milanese e italiana. Non si tratta solo di importare una serie di spettacoli più o meno interessanti: molto spesso il Crt organizza rassegne monografiche (per esempio sull’Odin Teatret), accompagnate da incontri e convegni; ancora più spesso gli artisti e i gruppi, in occasione della loro permanenza milanese, tengono corsi e seminari che hanno un ruolo significativo nella complessa “autopedagogia teatrale” di quel periodo.
Il Crt ha un ruolo chiave nella rassegna dei “Confronti Teatrali”, curata da Franco Quadri, che alla metà degli anni Settanta in diverse edizioni porta a Milano alcune significative realtà sia straniere sia italiane. Sono gli anni in cui, sulle nostre scene, dopo la “generazione delle cantine” romane tra i Sessanta e i Settanta (Bene, De Berardinis, Quartucci, Nanni, Perlini, Vasilicò…), inizia ad affermarsi la “seconda onda” del nuovo teatro italiano: i “Confronti Teatrali” registrano la novità e portano per la prima volta a Milano la Gaia Scienza e il Carrozzone. Ma, in base a una scelta forse snobistica, il Crt negli anni successivi ignora l’avanguardia made in Italy, con l’unica eccezione significativa di Remondi e Caporossi.
Questo atteggiamento cambia radicalmente dopo la metà degli anni Ottanta, con la sistematica apertura al nuovo teatro italiano, e in particolare alla “seconda generazione” dei gruppi, dopo la vetrina offerta dalla Biennale Teatro diretta da Franco Quadri.
In quelle edizioni la rassegna veneziana presenta un mix di grandi nomi della scena internazionale (dalla Bausch con una indimenticabile personale a Robert Wilson, da Andrei Serban all’Odin Teatret, ma anche Ronconi e Castri) e di giovani compagnie italiane emergenti, che a Venezia erano passate, ai tempi della direzione Scaparro, solo con Tango glaciale di Falso Movimento. Nella Biennale dell’84 si radunano così la Gaia Scienza (che si sta proprio allora dividendo in due tronconi), Santagata e Morganti, Raffaello Sanzio, Valdoca, Padiglione Italia… L’anno successivo, dopo la scandalosa affaire del cavallo a Santarcangelo, arriveranno anche i Magazzini. Per la prima volta il nuovo teatro italiano approda massicciamente in una grande istituzione nazionale, e le reazioni dell’establishment non si fanno attendere: di fatto il progettato triennio veneziano si riduce a un biennio, e le altre istituzioni teatrali (stabili e festival non specificamente dedicati al settore) non danno seguito a quella proposta. (Per la cronaca, a Milano la panoramica veneziana verrà in buona parte ripresa, con l’arricchimento di altri gruppi, da due edizioni della rassegna “Sussurri e Grida” curata dall’Out Off.)
Nel 1987 ci sarà un tentativo di rilanciare un fronte comune del nuovo teatro, con la seconda edizione del Convegno di Ivrea, a vent’anni dal primo storico incontro: ma questi “stati generali” di fatto produrranno solo un elenco di recriminazioni e buone intenzioni.
È proprio a questo punto che il Crt apre con decisione agli “italiani”. La scelta è certo determinata da alcuni elementi “in negativo”: da un lato l’onda della ricerca internazionale sembra aver perso il proprio slancio, dall’altro i cachet per le mega-produzioni internazionali si sono fatti proibitivi. Nel contempo si afferma la consapevolezza che in Italia sta accadendo qualcosa di interessante, grazie al lavoro dei gruppi: sul versante artistico, la messa a punto di una serie di grammatiche teatrali più aperte alla modernità; sul versante sociologico, in un paese che sta ancora facendo i conti con il terrorismo e sperimenta quello che verrà definito “riflusso”, il teatro si trova ad aggregare decine e decine di giovani che trovano nella scena il proprio terreno d’espressione e comunicazione.
Rispetto alle ideologie teatrali che dominano in quel periodo – da un lato lo spettacolo commerciale, dall’altro l’ideale nazional-popolare del “teatro d’arte per tutti” che ispira sia gli stabili sia le cooperative – queste avanguardie lavorano per piccoli gruppi di spettatori. Non si rivolgono più a un pubblico potenzialmente indifferenziato – o, per dirlo con un’espressione che all’epoca ancora non si usava – “generalista”. I loro destinatari sono invece diversi segmenti di pubblico – diversi “target”. Gli artisti non hanno più davanti a sé un “popolo”, una comunità omogenea, seppure strutturata al suo interno; e neppure l’universo indifferenziato dei giovani. Emerge chiaramente la consapevolezza che il teatro è un’arte “per pochi” di fronte allo strapotere del cinema e soprattutto delle televisioni, quelle pubbliche e quelle private (un fenomeno allora in fase di esplosiva crescita). In questo senso, le avanguardie teatrali stanno sperimentando sulla loro pelle quella che sarà l’evoluzione della società e della cultura del paese nei successivi decenni.
 
In questo scenario, l’obiettivo che si pone il Crt è certamente ambizioso: presentarsi come controparte istituzionale, far rientrare alcune fasce marginali nel circuito della comunicazione, offrire un’occasione di visibilità e confronto anche a esperimenti “difficili” e spesso appesantiti da un eccesso di autoreferenzialità, mantenere aperto un canale di scambio tra centro e periferia, tra punti di vista diversi e in apparenza incompatibili.
Per capire la spregiudicata intelligenza di questo progetto, bisogna tenere conto che molte di queste esperienze affondano le loro radici (esistenziali, se non altro) nell’area delle microculture (e controculture) giovanili, nelle frange del dissenso extraparlamentare e in generale della sinistra. Non è un caso che, almeno in una prima fase, sul versante critico i gruppi godano del sostegno di giornali come “il manifesto”, “Lotta Continua” e “Quotidiano dei Lavoratori”, mentre quasi tutta la stampa “borghese” (all’epoca in buona maggioranza “strehleriana” e antironconiana) ignora o attacca questo genere di spettacolo. Anche la politica culturale del Pci sosterrà con enorme cautela queste nuove generazioni teatrali (come si è visto, elitarie oltre che di evidente ascendenza “formalistica”), privilegiando in linea di principio il teatro di regia, a cominciare ovviamente dai sopra citati Strehler e Ronconi.
La scelta del Crt di sostenere la ricerca teatrale italiana, e di proporsi come suo punto di riferimento istituzionale, non è dunque scontata. Non è scontata neppure l’adesione dei gruppi a questo progetto, sancita in pratica nell’incontro di Perugia del 1988, che coinciderà con due decisioni di politica culturale di notevole impatto sul settore. La prima (dopo anni in cui si è assistito a una proliferazione di contributi a pioggia e al consolidarsi di inaccettabili rendite di posizione), è la scelta di tagliare progressivamente e radicalmente il numero delle compagnie di ricerca sovvenzionate dal Ministero: degli oltre 200 gruppi finanziati dal Ministero se ne dovranno salvare una trentina. In secondo luogo, è in questo periodo che vengono istituiti i Centri di ricerca, di cui il Crt a Milano, il Centro Teatrale San Geminiano di Modena e il Centro Servizi e Spettacoli di Udine saranno i prototipi. I Centri nascono anche per sopperire ad alcune lacune “genetiche” dei gruppi che, centrati sul progetto artistico, finiscono per trascurare gli aspetti organizzativi (che vanno dal disbrigo delle infinite pratiche burocratiche alla ricerca degli spazi) e la costruzione del rapporto con il pubblico. Di fatto i Centri (soprattutto quelli citati, che non sono nati intorno a un progetto artistico ma a un percorso soprattutto organizzativo) vogliono offrire ai gruppi questi servizi – spesso affiancandoli e associandoli in coproduzioni.
Tuttavia il progetto di riorganizzazione del settore intorno a questa collaborazione sconterà negli anni successivi una diversa serie di debolezze. Nel medio periodo, malgrado i numerosi tentativi di produrre direttamente spettacoli (al Crt questi esperimento erano cominciati assai presto, grazie a Paolo Viola, troppo presto scomparso), i Centri sconteranno proprio la mancanza di una forte identità produttiva e “poetica”. Questo li porterà a costruire di volta in volta “operazioni” magari interessanti ma che faticano a costruire nuclei artistici stabili, che possano mantenere nel tempo la propria necessità: infatti le produzioni dei Centri, quando non si sono appoggiate a nuclei artistici preesistenti e già collaudati, hanno lasciato ben di rado impronte indelebili. In secondo luogo Centri e gruppi avranno inevitabilmente la tendenza a proporsi come un universo separato, un circuito autonomo e indipendente rispetto agli stabili, la “serie A del teatro pubblico”, pur con tutte le loro sclerotizzazioni e lottizzazioni interne. E’ una divisione che sterilizza da anni il nostro teatro: è difficile trovare le responsabilità (che vanno certo distribuite tra stabili, centri, gruppi, burocrati, critici eccetera), e di misurarne i danni in termini di mancato rinnovamento e di involgarimento… E’ una discontinuità che resta ancora molto aperta, come dimostrano il reiterato fallimento della candidatura di Gabriele Vacis allo Stabile di Torino o la conclusione anticipata dell’esperienza di Mario Martone a Roma. E rappresenta probabilmente il nodo irrisolto del teatro italiano degli ultimi vent’anni.
Di fatto nel giro di qualche anno, il progetto dei Centri di ricerca s’impantana: rischiano di diventare degli stabili di serie B, con meno peso e risorse dei fratelli maggiori. Almeno nella misera economia del teatro di ricerca, i Centri rappresentano una quota significativa da distribuire e filtrare in produzioni, coproduzioni e ospitalità. Ma progressivamente, non appena se ne presenti l’occasione, non appena la divisione del lavoro tra i vari teatri cittadini s’incrina, gli artisti che a questa area fanno riferimento cercano vetrine più prestigiose (o condizioni finanziariamente più vantaggiose, o semplicemente occasioni di visibilità che un Centro non può offrire a tutti i gruppi in tutte le stagioni).
 
Tornando a Milano, il Crt, per una sorta di tacita divisione del lavoro con gli altri teatri, resta a lungo il luogo deputato per la ricerca. Ma sul versante degli spazi paga un prezzo piuttosto alto. Non riesce a diventare appieno un punto di riferimento e un luogo di aggregazione, anche perché nel corso degli anni è costretto a distribuire la programmazione in diverse sale: oltre al glorioso ma ultraperiferico Salone di via Dini già citato, utilizza come sedi il Teatro Poliziano (per un breve intervallo) e il Teatro dell’Arte (dove s’insedia e poi torna dopo un lungo intervallo dovuto a interminabili e assai discutibili lavori di ristrutturazione gestiti dal Comune di Milano), passando per l’Ansaldo e addirittura per una sala parrocchiale, il Teatro Gnomo. Il pendolarismo rende ovviamente difficile stabilizzare l’interesse delle diverse fasce di pubblico che questo o quel gruppo avevano costruito nella metropoli milanese. E nei fatti il Crt non riesce a bilanciare questo nomadismo con un capillare lavoro sul territorio e sulla costruzione di un rapporto organico con il pubblico. Il rischio è quello di dover inseguire fasce sempre nuove di pubblico, sperando di individuare attraverso nuove proposte l’emergere di nuovi bisogni e tendenze (o a volte mode).
Di fatto, con il passare delle stagioni, alcuni dei nomi che avevano costituito il fulcro della programmazione del Crt emigrano altrove. Altri, che attraversano momenti di crisi creativa (inevitabili nell’ambito della ricerca), ne scivolano fuori e difficilmente vengono “ripescati”. Altri ancora ne vengono di fatto allontanati, per divergenze sul piano culturale (vedi il caso della Societas Raffaello Sanzio dopo Gilgamesh). I Centri appaiono restii a permettere l’accesso a nuove formazioni. In questo periodo il loro accesso alle sovvenzioni ministeriali sarà reso assai arduo anche grazie al “filtro” dei Centri: infatti le regole burocratiche impongono a un gruppo che vuole accedere alle sovvenzioni un certo numero di repliche proprio presso i Centri. Che tendono a escluderli e così di fatto finiscono per accantonare anche la loro funzione di talent scout (indispensabile per favorire il ricambio generazionale).
Questi sviluppi portano a una nuova fase di stallo, a metà degli anni Novanta. La soluzione sarà analoga a quella trovata un decennio prima: fare del Crt il punto di riferimento milanese (e implicitamente nazionale) per una nuova generazione di gruppi che operano nel settore della ricerca. Come un decennio prima, i serbatoi cui attingere sono principalmente due rassegne. Sul versante regionale “Scena Prima” è una sorta di censimento delle giovani compagnie della Lombardia, che ha tra i promotori la Regione e altri enti locali, e alcuni teatri milanesi (oltre al Crt, Verdi e Teatridithalia). A livello nazionale, il segnale viene soprattutto da una rassegna milanese nella quale il Crt non è coinvolto, “Teatri 90”, a cura di Antonio Calbi, la cui prima edizione viene ospitata dal Teatro Franco Parenti, fino a quel momento non particolarmente attento al nuovo. “Teatri 90” porta per la prima volta a Milano gruppi come l’Impasto, il Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander, Teatro del Lemming, che diverranno presenze qualificanti nella programmazione del Teatro dell’Arte, insieme a qualche “superstite” delle generazioni precedenti.
I gruppi più giovani che approdano al Crt-Teatro dell’Arte (seppur in una condizione di debolezza di fronte a un gigante) hanno certamente una grande occasione: hanno la possibilità di un confronto a un livello culturale alto (anche se a volte questo confronto resta implicito), vengono presentati in una sede prestigiosa, affrontano il giudizio di critica e pubblico, possono essere salvati o ripiombare in quella terra di nessuno nella quale si dibattono molte piccole compagnie.
Sul piano generale, il primo rischio è quello di creare l’ennesimo ghetto per una nuova leva di teatranti, in attesa che spicchino il balzo verso altri lidi, che ora – sulla piazza milanese – vanno dai Teatridithalia al Piccolo, fino a tempi piuttosto recenti assolutamente refrattario a intrusioni da parte di qualunque “avanguardia” (al proposito non è inutile ricordare gli anatemi scagliati da Piccolo Teatro in occasione di un ormai lontano “Festival Odin” del Crt, e il beffardo volantino con cui il Crt ha salutato, in tempi molto più recenti, un’analoga iniziativa del Piccolo Teatro, che ha segnato per certi versi una svolta epocale, nel piccolo universo delle beghe di palcoscenico).
Il secondo rischio, rilevato da diversi osservatori, è che il pubblico resti perplesso e disorientato di fronte a stagioni costruite quasi del tutto su formazioni alle prime esperienze e dunque relativamente fragili, davanti a un pulviscolo di proposte con teniture spesso di pochissime repliche in una città notoriamente lenta a reagire come Milano. Il rischio è che passino quasi inosservate anche proposte di forte impatto, come il debutto milanese di una star della scena internazionale come Alain Platel con due repliche in bassa stagione.

A questo punto, è possibile tracciare un primo provvisorio bilancio di questi (quasi) trent’anni.
In primo luogo, va rilevata l’identificazione di fatto della struttura con il suo fondatore e presidente, Sisto Dalla Palma. Nel corso degli anni al Crt hanno operato con funzioni direttive personalità molto diverse, sia sul versante della direzione artistica sia di quella organizzativa. Un elenco peraltro incompleto potrebbe comprendere Paolo Viola, Franco Laera, Paolo Zenoni, Giorgio Zorcù, Patrice Martinet, Sandro Pasquini (per un brevissimo esperimento), Patrizia Cuoco, Marina Gualandi, Silvio Castiglioni, Chiara Bachetti, Massimo Mancini… Ma nessuno di loro è riuscito a resistere per più di qualche anno, anche se certamente alcuni di loro hanno lasciato un segno nella fisionomia del teatro.
Professore universitario, grand commis della Democrazia Cristiana nel settore dello spettacolo (quando c’era la Dc), Sisto Dalla Palma è stato, oltre che presidente della Fonit Cetra, segretario della Biennale quando direttore del settore teatro era Maurizio Scaparro: insieme, in una operazione centrata sull’ideologia della festa, hanno rilanciato il Carnevale, di recente televisionizzato e finito nelle grinfie Fininvest.
Di fatto, la sua gestione è il principale elemento di continuità del Crt. Non mancano nella programmazione omaggi alla sua matrice cattolica (vedi le feste per la Notte dell’Epifania), che però a volte paiono corpi estranei alla normale programmazione. (Non ho qui lo spazio per approfondire le attività pedagogico-formative del Crt, che certamente hanno un peso notevole nella sua economia e nella sua progettualità, e che tuttavia esulano dagli obiettivi di questa analisi.)
Con ogni probabilità l’impronta più forte sul teatro italiano viene dalla dialettica con i gruppi, presentati o esclusi dalle stagioni del Crt in base all’omogeneità a un progetto culturale che diverge dalle loro dinamiche. A volte invece a causare la crisi all’interno di un gruppo di lavoro – in particolare nell’ambito di produzioni direttamente gestite dal teatro – pare all’opposto essere un eccesso di adesione di un progetto spettacolare a uno schema ideologico. Quella che a volte sembra mancare – almeno a uno sguardo esterno – è una autentica dialettica tra i due poli, che permetta a entrambi di crescere.
Il teatro viene vissuto dal Crt in primo luogo come una vetrina esemplare di possibilità estetiche, culturali e pedagogiche, prima ancora che come un movimento teatrale presente nella società. Non si tratta dunque di stimolare la nascita di nuove realtà o di cogliere i germi di nuovi fenomeni, quanto piuttosto di registrare l’esistenza di forme teatrali già sufficientemente formalizzate per essere inserite nel circuito teatrale.
Così in questi anni il Crt si è soprattutto preoccupato di cogliere e rilanciare tendenze che hanno già superato una certa soglia di visibilità e sponda critica – attraverso altre forze, altre attenzioni e altre vetrine (“Biennale” e “Sussurri e Grida” prima, “Teatri 90” poi; invece l’attenzione a iniziative come quelle dei “Teatri Invisibili” o di “Opera Prima” è stata a dir poco scarsa – anche per il problema della alta soglia d’ingresso di cui si è detto sopra). Dopo un periodo da “compagni di strada”, per carenza o eccesso di adesione al progetto del Crt, molti gruppi finiscono poi per imboccare altre strade o per sciogliersi. E a quel punto il Crt si apre a una nuova generazione teatrale.
Il secondo nodo – cui si è già più volte accennato – riguarda la difficoltà a produrre direttamente spettacoli da parte del Crt e in generale dei Centri, in mancanza di un nucleo artistico stabile. In diverse occasioni sono stati fatti tentativi in questa direzione, che tuttavia hanno lasciato poche tracce. Dopo oltre vent’anni questa difficoltà a produrre in proprio pare insormontabile. Nei fatti il Crt ha svolto dunque soprattutto un ruolo di ospitalità e di distribuzione che di autonoma creazione.
 
Se questi primi nodi riguardano in sostanza il Crt e le sue dinamiche interne, l’ultima questione ha invece implicazioni di carattere più generale e riguarda gli equilibri dell’intero sistema teatrale italiano. Di fatto i Centri si propongono fin dall’inizio di costruire un circuito autonomo per la ricerca, alternativo a quello degli stabili e del teatro privato (mentre l’ETI, prima dei recenti tentativi di re-direzione, ha continuato a lungo a relegare la ricerca nei ghetti delle rassegne di inizio e fine stagione, quasi per salvarsi l’anima). Di fatto questo circuito è rimasto poco più di un progetto, ma rischia di costituire un potente alibi per evitare ogni contaminazione tra il teatro “ufficiale” e quello “di ricerca”. È come se “tradizione” e “ricerca” in Italia costituissero in eterno due mondi separati, caratterizzati da modalità produttive incompatibili, da estetiche inconciliabili, da linguaggi divergenti. Questa separazione concede a chi fa ricerca maggiore libertà e possibilità di sperimentare, ma alla lunga finisce per deresponsabilizzare di fronte alle necessità di un teatro pubblico – e in queste condizioni può diventare difficile continuare a crescere anche sul piano puramente artistico. D’altro canto i rari esperimenti di sconfinamento di “teatranti d’avanguardia” nei grandi carrozzoni pubblici sono stati episodici e poco convincenti. Se si tratta di un singolo spettacolo, il rischio è che le necessità e le modalità produttivo-distributive degli stabili finiscano per schiacciare il progetto; se si tratta di salire sulla plancia di comando, lo scontro tra due diverse idee della cultura e del teatro (ambedue “di sinistra”, va precisato, e radicate nella necessità di un teatro pubblico) diventa presto ingestibile.
La questione resta ancor oggi drammaticamente aperta. Se ne avverte l’eco in alcune vicende (e polemiche) di questi giorni. Il progetto di spezzare alcuni stabili in due tronconi (a Roma l’Argentina ad Albertazzi e l’India a Giorgio Barberio Corsetti, a Torino la “Tradizione” nelle mani di Castri, l'”Innovazione” in quelle di Vacis) riflette questa logica dicotomica, ma non porta avanti di un passo l’evoluzione del nostro sistema teatrale. In questo quadro, quale può essere la funzione del Crt e degli altri successori dei Centri di Ricerca, i Teatri stabili di innovazione? Devono accompagnare per un certo tratto alcune realtà in crescita per poi abbandonarle al loro destino – sapendo che le porte dei teatri stabili resteranno sbarrate? Devono trasformarsi in veri e propri stabili, ma con mezzi assai più limitati?
Al di là delle polemiche di corto respiro, il Crt – come tutto il teatro italiano – deve superare questa strettoia. E visto il ruolo centrale dell’istituzione milanese nelle trame teatrali di questi anni, la soluzione avrà notevoli ripercussioni sull’intero sistema – o su quel che ne resta.

Oliviero_Ponte_di_Pino




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