Pasolini nel carcere di Volterra

Lo spettacolo della Compagnia della Fortezza (e la performance delle Ariette da Marguerite Duras)

Pubblicato il 03/08/2004 / di / ateatro n. 072

Foto di Stefano Vaja.

 

L’appuntamento annuale con i detenuti-attori della Compagnia della Fortezza a Volterra, il pezzo forte del festival ospitato nella città toscana (quest’anno sotto l’insegna Teatri dell’impossibile), è ormai divenuto – alla diciottesima edizione – una sorta di rituale. Oltre alla periodicità stagionale dell’evento, anche le complesse procedure per entrare nella fortezza medicea fanno parte di una cerimonia che è insieme di apertura e chiusura, di confronto e di scambio, di barriere e di passaggi. La verifica dei documenti d’identità, la consegna del pass, il deposito di borse e cellulari, l’attesa, il suono dei cancelli che rimbombano, i secondini a controllare attori e spettatori nella gabbia-palcoscenico, l’attesa tra le pietre antiche e le finestre sbarrate sotto il feroce sole d’agosto, costituiscono una angosciante soglia, il prologo poliziesco di un rituale dove si confrontano due collettività – o meglio due frazioni della stessa comunità – che per un’unica volta nel corso dell’anno si incontrano in quel luogo così carico di significati.


Foto di Stefano Vaja.

Tuttavia per noi moderni un rituale non può ripetersi ogni volta uguale. Nel rude rito della Fortezza di Volterra – il confronto tra dentro e fuori, tra prigionieri e uomini liberi – fin dall’inizio è entrata la storia. Da un lato l’evoluzione della compagnia, la conquista di una professionalità che diventa maestria, una visibilità sempre maggiore, fino al tg nazionale, l’evoluzione dei suoi rapporti con le autorità carcerarie e con le istituzioni. Dall’altro ovviamente le vicende della «grande storia», a cominciare dalle sfarinate vicende del nostro paese, che inevitabilmente riecheggiano anche tra quelle mura.


Foto di Stefano Vaja.

Così per questa edizione 2004 con lo studio P. P. Pasolini ovvero elogio del disimpegno Armando Punzo e la sua compagnia compiono alcuni gesti dal valore esemplare, e spesso paradossale. Per cominciare riempiono il cortile del carcere con una clamorosa e metaforica macchina celibe, un enorme attrezzo tra Calder e Tinguely, con mani-piedi-occhi che ruotano azionati da sgangherate biciclette. Inutile, enorme e proliferante, questa nave dei folli coloratissima di giallo, rosso, blu e nero (come nei quadri di Mondrian ripresi anche da uno dei costumi), leggera e fragile, è un divertito ed esasperato contrappunto alla funzionale pesantezza dell’ambiente in cui è incastonata, un inno alla gratuità della fantasia. Anche i personaggi che abitano questa sgangherata foresta di simboli giocano a ribaltare le attese: i carcerati esasperano ironicamente la loro alterità trasformandosi in una brulicante tribù di clown, folletti dalle orecchie a punta, angeli, figure mitologiche (uomini in giacca e cravatta con teste di cavallo o di elefante, il danzatore bianco e quello nero che s’affrontano in una lotta-danza). Creature fantastiche, dunque, che ribaltano il peso della reclusione nella leggerezza degli acrobati, in creature che si nascondo nelle pieghe più segrete della natura o riemergono dalla profondità del mito, e che dunque possono permettersi di lanciare uno sguardo straniato e corrosivo alla nostra quotidianità. Perché al centro della struttura scenica sono incastonate quattro celle-appartamenti, che diventano teatro di una serie di scenette satiriche rubate al mondo «di fuori»: fragili aneddoti di pranzi, mariti abbandonati e casalinghe sedotte.


Foto di Stefano Vaja.

Ma in questo circo dove vagamente felliniano, onirico e grottesco, il primo gesto, quello da cui nasce la necessità del lavoro è ovviamente il rimando a Pasolini. O più precisamente alla sensazione di estraneità che il poeta avvertiva nei confronti dell’Italia: «Io mi chiedo: è possibile passare una vita sempre a negare, sempre a lottare, sempre (…) essere nemici dei vicini, essere odiati d’odio da chi odiamo per amore, essere un continuo, ossessionato esilio pur vivendo in cuore alla nazione?». E certo pasoliniani potrebbero essere quei visi, quei corpi rubati alla vita di figli del popolo – o meglio, dei popoli, perché tra gli ospiti di Volterra, come in tutte le carceri italiane, gli stranieri sono sempre di più. E pasoliniana è la necessità di cogliere la contraddizione, la scelta di non attenuare il conflitto o di dargli una forma in qualche modo «politica», ma di farlo esplodere nella poesia e insieme nella carne.

Ed è ovvio che l’intreccio e lo scarto dei due punti di vista – quello del maggiore poeta civile dell’Italia novecentesca, scomodo per vocazione e definizione, e quella dei carcerati, protagonisti di una diversità imposta dalla legge – è il germe da cui maturano queste visioni insieme allegre e disperate, questi scoppi di vitalità e il presagio di una fine (che è un po’ il segno ricorrente di questa estate teatrale). Da un lato il fracasso di una banda circense e gli scoppi dei mortaretti che periodicamente lasciano cadere una pioggia di coriandoli colorati, in una euforia un po’ forzata e un po’ liberatoria. Dall’altro quei due troll alla Buster Keaton che ripetono il loro tormentone: «E’ la fine, vero?», «Basta!».

A quasi trent’anni dalla morte di Pasolini (una data-simbolo per la coscienza civile e per la cultura italiana), e quando gli effetti dell’11 settembre hanno trovato il tempo di sedimentarsi nell’anima, è un po’ il segno di questa estate festivaliera, il presagio della fine – o forse una consapevolezza a volte stemperata nell’ironia, a volte colta in tutta la sua drammatica irrevocabilità. Per il Teatro delle Ariette, anche per motivi personali, biografici, questo è il tempo della elaborazione di un lutto. Così, dopo Estate. Fine a Santarcangelo, con il «progetto sperimentale» Assenza a Volterra le Ariette segnano un’altra tappa del loro cordoglio. Anche qui con un radicale ribaltamento, quella della formula cibo-teatro che li ha portati al successo. Ancora una volta gli spettatori sono seduti intorno a un tavolo, in una stanza stretta, calda e umida. Ancora una volta c’è del cibo, qualche fetta di crostata e mucchietti di pane sbriciolato. E le posate e i bicchieri. Ma dall’alto gocciolano le flebo. E quel cibo nessuno lo mangerà, non ci sarà il pranzo-comunione che chiudeva i precedenti rituali delle Ariette.

La voce fuori campo di Paola Berselli (è anche all’assenza degli attori e in fondo dello spettacolo, al culmine di un processo di progressiva sottrazione, che si riferisce in titolo della performance) ripercorre Il dolore di Marguerite Duras, ovvero il racconto del terribile ritorno del suo uomo, Robert Anthelme, dai campi di sterminio. Malato, scheletrito, abbrutito. Affamato al punto che mangiare può portare alla morte, come successe a molti sopravvissuti ai campi. Un calvario di sofferenze fisiche e psichiche, straziante e insopportabile. E quella crostata, e quelle briciole, ci sono anche nel racconto di Paola-Marguerite, e diventano dunque tabù. Il canto di Edith Piaf, che apre e chiude come una parentesi i quaranta minuti della lettura, non basta certo a romperlo.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2004-08-03T00:00:00




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