Teatro per tutti: ma per chi? Appunti per una storia del concetto di “accesso” a teatro

Da "Teatri della diversità", numero 42 (in distribuzione da Feltrinelli)

Pubblicato il 02/07/2007 / di / ateatro n. 110

Il problema dell’’”accesso” è un aspetto fondamentale delle politiche teatrali.
Che potenzialmente “tutti” possano accedere agli spettacoli è una pregiudiziale e assieme un obiettivo del teatro e dello stesso finanziamento pubblico – “un teatro d’arte per tutti” – ma il concetto è il realtà molto più complesso di quanto possa sembrare. Si tende invece a darlo per scontato, sottovalutarlo e eluderlo in quasi tutti i documenti legislativi (inclusi i più recenti), mentre è a maggior ragione importante metterlo a fuoco se è vero che gli equilibri e squilibri territoriali (quindi anche un potenziale diritto di accesso garantito a livello nazionale) costituiscono il vero nodo di una riforma in senso federale.
Il progetto di legge presentato dal coordinamento delle Regioni il 16/6/2004 aveva affrontato l’argomento più concretamente di quanto non faccia la recente “bozza Montecchi”, individuando criteri per la ripartizione del FUS e cercando un equilibrio fra il fattore territoriale socio-demografico (il parametro abitanti), quello storico (non arretrare rispetto ai livelli raggiunti) e la necessità di intervenire sugli squilibri nella direzione di una “perequazione”.
Può darsi che sia un’esigenza poco avvertita quella di fornire di basi teoriche le nostre politiche per lo spettacolo, ma forse la riflessione potrebbe renderle meno fragili, più convinte. Del resto la questione dell’accesso ha storicamente implicazioni che vanno al di là del dato socio-politico, è decisamente “trasversale”: tocca la questione del repertorio e la discussione plurisecolare sul teatro popolare (“quale” teatro per tutti?), coinvolge tutti gli aspetti più rilevanti dell’organizzazione, il problema degli spazi, quello del teatro amatoriale e della partecipazione etc. etc.
Gli appunti frammentari che seguono offrono qualche spunto di riflessione per un’analisi del problema.

Dal teatro educatore alla carta del servizio pubblico
Nella sua Lettre sur les spectacles, del 1758, Rousseau condanna senza appello il teatro del proprio tempo, auspicando la rinascita di spettacoli “che un popolo libero possa offrire a se stesso”. Le “feste pubbliche” saranno un cavallo di battaglia della rivoluzione francese, che però farà proprie anche le indicazioni di altri illuministi, meno radicali, che vedono il teatro – in mano al popolo – come una possibile forza della ragione, un potente strumento educatore. Il 1789, si sa, ha lasciato le sue tracce e oltre due secoli di distanza non è un caso che sia la Francia, con La carta delle missioni di Servizio Pubblico, elaborata dal Ministero della Cultura francese Catherine Trautmann nel 1998, a teorizzare la necessità di individuare precise “missioni” e rilanciare la democratizzazione della cultura, la responsabilità sociale e territoriale. La carta del servizio pubblico obbliga tra l’altro a un’ampia diffusione degli spettacoli così che tocchino vaste fasce di popolazione, a sensibilizzare le diverse fasce generazionali, a “partecipare allo sforzo nazionale di riconciliazione sociale verso le popolazioni escluse per ragioni culturali, economiche o fisiche”.

“Per tutti” dove?: il teatro all’italiana, “bruciarne la tavole, bruciarne l’idea”
Per la verità anche qualche grande del nostro Risorgimento si era posto problemi analoghi. Gustavo Modena, già nel 1836, condanna lo spirito speculativo e l’architettura tradizionale dello spazio all’italiana, come una delle condizioni che irrigidisce la divisione in classi sociali e determina l’esclusione da quello che chiama “Il teatro bottega”. Per correggerlo bisogna bruciarlo: “bruciar le tavole, bruciarne il morale, bruciarne l’idea”. Ma da noi la rivoluzione non c’era e non ci sarebbe stata.
La maggioranza dei nostri spazi sono tuttora “all’italiana”. La questione degli spazi è centrale nel dibattito e nelle pratiche a favore dell’accesso.
Una risposta che attraversa con esperienze affini il secolo scorso e diversi paesi europei è quella del “teatro mobile”, per esempio un tendone: in Italia e per restare al secondo dopoguerra, possiamo ricordare i teatri tenda di Gassman negli anni sessanta, e il Teatro Quartiere del Piccolo nei primi anni settanta (fra gli altri). Si tratta, certo, di una risposta che precede gli interventi politicamente strutturati del “decentramento” e può sembrare un po’velleitaria e populista (spesso sono i grandi attori a subire il fascino dello chapiteau): ma non si può negare che si tratti di uno spazio democratico per eccellenza, che unisce in un volume unico attori e spettatori, che non discrimina, non intimidisce, e porta la montagna a Maometto laddove Maometto non intenda andare alla montagna (l’esperienza di spazi alternativi – anche nel settore del teatro sperimentale e almeno fra l’epoca delle “cantine” romane e i centri di ricerca – sembra invece più legata a scelte “di fortuna” che a orientamenti estetici o alla ricerca del pubblico).

Servizio sociale e decentramento…
Il “decentramento teatrale”, almeno nell’esperienza italiana cresciuta a partire dagli anni Settanta, risponde a una fase più avanzata di maturazione organizzativa e politica ma agli stessi obiettivi: il risultato della politica di “reclutamento” degli spettatori lanciata da Paolo Grassi e dal Piccolo nel ‘47 non aveva dato risultati convincenti e diffusi. L’esclusione dal teatro restava un dato di fatto. Si deve alla politica di decentramento, condotta fianco a fianco da operatori e amministratori locali, la crescita inizialmente vertiginosa, poi il consolidamento dell’attività teatrale.

…a che punto siamo?
Ma resta il fatto che la sperequazione nord/sud, centro/periferia, città/provincia è ancora pesantissima. Qualche dato (arrotondato): i Comuni capoluogo con il 30% degli abitanti c.ca assorbono quasi il 60% dell’offerta di spettacoli e il 66% della domanda (cioè del totale del pubblico). Le 6 città con oltre 500.000 abitanti dove risiede il 12% della popolazione assorbono oltre il 30% dell’offerta. Infine i comuni fino a 50.000 abitati con il 64% dei residenti si aggiudicano il 38% degli spettatori. Dati altrettanto allarmanti riguardano la distribuzione delle sale, le sperequazioni nord-centro e sud e non disponiamo di dati elaborati sui piccoli e piccolissimi comuni, in molti casi del tutto esclusi dall’attività di spettacolo. Il percorso verso il decentramento, espressamente orientato ad un’ottica democratica del teatro e finalizzato all’accesso è insomma, solo all’inizio.

“Per tutti” ai tempi della crisi del welfare
Paolo Grassi auspicava nel 1946, che il teatro diventasse “…una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio, alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco, e che per questo preziosissimo pubblico servizio nato per la collettività, la collettività attuasse quei provvedimenti atti a strappare il teatro all’attuale disagio economico e al presente monopolio di un pubblico ristretto…”. Sono notoriamente i presupposti su cui nasce nel ‘47 il Piccolo Teatro (e molti teatri in Europa, anche decenni prima). Sono validi ancora? E ancora in questi termini? E’davvero convinto – ad esempio e fra gli altri – lo Stato italiano che il teatro sia un servizio pubblico? Io non ne sono certa: se non sbaglio non sta scritto da nessuna parte (i richiami alla costituzione, all’identità culturale, alla libertà di espressione etc.mi sembra rischino di essere un po’astratti e, a sessant’anni dalle parole di Grassi, sappiamo che in concreto quell’auspicio non si è realizzato).

Il pubblico fra democrazia e marketing: tutti chi?
Il problema del “monopolio di un pubblico ristretto” lo abbiamo tuttora molto presente (nonostante le statistiche contradditore): anche se forse si è affinata negli ultimi anni più una consapevolezza dell’utilità del “marketing” che una sensibilità asociali. La sostanza potrebbe non essere diversa (ma non ne sono sicura). Ci è chiaro comunque che almeno un 80% della popolazione italiana non va a teatro. Il punto è: non va o ne è esclusa? E perché – nel caso – lo è? Il teatro come “diritto potenziale” è garantito? Sedi e spazi, “barriere psicologiche”, informazione, prezzi.
Ma chi sono questi tutti, questi esclusi che si dovrebbero conquistare al teatro? E’ più facile dire chi “erano”. Romain Rolland, il principale teorico del teatro popolare francese, voleva un teatro “che riunisse e non escludesse, che fondesse le diverse componenti sociali e i diversi pensieri in un’unica collettività, un popolo teatrale pronto ad esercitare l’intelligenza e un teatro che lo aiutasse a giudicare le cose, gli uomini e se stesso” (per una volta citiamo lui e non Grassi per dargli la primogenitura, ma dice nella sostanza le stesse cose, per quanto da intellettuale ottimista ed entusiasta del 1901 o 1902).
Appare decisamente sbilanciata in senso sociale la lettura che della stessa parola d’ordine del Piccolo “un teatro d’arte per tutti”, faranno i protagonisti del “decentramento” negli anni a cavallo fra i Sessanta e i Settanta. Gli esclusi sono – nella loro analisi – ceti sociali e aree territoriali ben precise: le classi operaie e polari in genere, le periferie, l’estrema provincia, il sud. Non sarà un “tutti” generico che andranno a cercare gli animatori delle cooperative, con lo spirito dell’intellettuale organico di Gramsci (ma sognando i cento fiori di Mao). Ma oggi? Le analisi di classe sono tramontate, dicendo “tutti” pensiamo ai giovani, al massimo alle periferie, ma il problema resta: la “casalinga di Voghera” ci fa sorridere, ma la aspettiamo quasi sempre in vano.

Tutti e ciascuno: assistere, fare, partecipare
Ma l’attivismo sociale non è stato e non è la sola strada. L’allargamento della partecipazione al teatro non passa solo dal “reclutamento” o dal raggiungimento del pubblico, passa dalle forme popolari di partecipazione che costituiscono un fil rouge lungo tutta la storia del teatro, dalle confraternite medioevali (se non vogliamo risalire fino ai cori greci), alla tradizione amatoriale soprattutto anglosassone, alle esperienze dilettantistiche, alle forme organizzative-associative di spettatori (forti nell’esperienza soprattutto tedesca ma anche francese del Novecento). La funzione del teatro amatoriale è tutta da meditare, anche in Italia, ed è spesso snobbata e sottovalutata. Alla sua forma tradizionale (compagnie di provincia, di solito convenzionali sul piano del linguaggio scenico, legate al repertorio dialettale, miste sul piano sociale e generazionale), radicata soprattutto in alcune regioni italiane (in Veneto ad esempio), si sono affiancate a partire dagli anni Settanta modalità diverse di operare, l’animazione prima, l’attività dei gruppi di base, i laboratori: una pratica che è cresciuta e si è diffusa fino a costituire un tessuto semiprofessionale ricchissimo e impossibile da censire.

Alla scoperta della differenza
Ma se ancora lo spettatore “normale” a teatro non c’è (c’è al 20%), gli anni Novanta sono segnati soprattutto dalla scoperta della differenza (la dimensione sociale si allarga a tutte le fasce del disagio) e dalla rinascita del teatro civile. Non so se le due cose sono collegate: tendo a pensarlo, mi sembra che il teatro civile corrisponda a un humus fatto di attenzione agli esclusi, testimonianza, memoria. Certo, il teatro civile non è il solo teatro possibile, ma una delle possibili risposte alla domanda di Brecht: “il teatro può rappresentare il mondo contemporaneo”? (e alla condizione della sua risposta: sì, se si ritiene che il mondo debba essere cambiato.)
In quest’ottica, non è più una questione di 20% (anche se la percentuale deve crescere!), ma di senso, di scelta, di diritti. Il “diritto” alla cultura – in un panorama che negli ultimi anni si è ricomposto, o scomposto, disegnando una mappa complessa in cui è difficile orientarsi – trova il suo banco di prova più significativo nelle aree del disagio. Intendo nelle attività che si svolgono all’interno, o sono dedicate ai temi caldi delle società contemporanee:
– diverse abilità, disagio, svantaggio:
– le differenze: generi e generazioni;
– l’interculturalità
– la questione delle aree metropolitane;
– le cosiddette “aree disagiate”;
– l’ambiente.

Politiche culturali in una dimensione mondiale
Ma il diritto alla cultura può essere oggi pensato in una dimensione locale? O nazionale? Certo si (il “prossimo” – diceva don Milani – sono POCHE persone e i diritti per essere tangibili devono riguardare precise comunità, singoli individui), ma allo stesso tempo deve essere rapportato a una dimensione globale: diversità, memoria, solidarietà, interculturalità, sono valori fondanti della società contemporanea, senza i quali mi sembra impossibile oggi FARE cultura (anche solo pensare, guardare il mondo).
Anche la riflessione sull’accesso deve guardare oggi molto vicino e molto lontano.

5 giugno 2007

Mimma_Gallina

2007-07-02T00:00:00




Tag: audience development (47), spettatore (38)


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