Il lato oscuro della storia d’Italia
Da Mussolini (e Matteotti) a Moro passando per Pasolini: gli spettacoli di Massimo Popolizio, Ascanio Celestini e Fabrizio Gifuni
Circolano per i teatri italiani tre spettacoli che meritano di essere visti perché consentono un rapido ripasso del Novecento italiano. Protagonisti sono tre cadaveri senza giustizia della nostra storia: Giacomo Matteotti (1924), Pier Paolo Pasolini (1975) e Aldo Moro (1978). Gli spettacoli si possono vedere in ordine cronologico, oppure andando all’indietro, o magari partire dalla tavola centrale del trittico, perché pur essendo spettacoli molto diversi (due monologhi e uno spettacolo con 18 attori) sono attraversati dalla stessa inquietudine. Questo trittico involontario è opera di tre artisti tra i cinquanta e i sessant’anni, che hanno avvertito la necessità di riflettere sulla natura profonda e nera del potere nel nostro paese: Ascanio Celestini (nato nel 1972), Massimo Popolizio (1961) e Fabrizio Gifuni (1966).
Atto primo
M. Il figlio del secolo
Per lo spettacolo coprodotto dal Piccolo Teatro di Milano e dal Teatro di Roma, Massimo Popolizio ha attinto al best seller di Antonio Scurati (M. Il figlio del secolo, Bompiani, 2018): le oltre 800 pagine di serrato montaggio di documenti e di “a parte” mussoliniani che raccontano l’ascesa del fascismo sono diventate un mini-kolossal di tre ore che occupa tutto l’ampio palcoscenico del Teatro Strehler.
Dal libro di Scurati, Popolizio (avvalendosi della collaborazione alla drammaturgia di Lorenzo Pavolini) ricava l’intuizione della complessa e quasi schizoide natura psichica del fondatore del fascismo: l’insicurezza e il risentimento del figlio del fabbro, le intuizioni politiche ma anche l’opportunismo furbo e senza scrupoli, il bugiardo patologico che nasconde un’indole violenta e cinica, il talento istrionico in apparenza bonario e quasi buffonesco.
E’ l’intuizione registica centrale, perché sulla scena Mussolini si sdoppia: c’è quello che abita la dimensione reale, politica e psicologica, interpretato da Tommaso Ragno; e c’è “il Teatrante”, l’anima istrionica e paradossale, che ostenta le ghette e il cilindro, quasi una parodia di Ettore Petrolini, un guitto a cui lo stesso Popolizio dà ironica verve.
Questo spettacolo nazional-popolare ripercorre la “resistibile ascesa” di Mussolini, raccontata in chiave epica (con i personaggi che passano spesso dalla terza alla prima persona), ma in trasparenza si intravvedono lo sdoppiamento del ricco Puntila e del suo servo Matti, la maschera schizoide del potere. Su una faccia della medaglia, la figura pubblica, sull’altra quella privata, da un lato la fragilità emotiva e dall’altro la sbruffoneria, ovvero il calcolo politico e la propaganda demagogica, la precisione delle mosse politiche e la vaghezza delle programma.
Di impronta brechtiana è anche lo spettacolo, in coerente sviluppo con le precedenti regie di Popolizio (Ragazzi di vita e Nemico del popolo): due spettacoli corali da cui si staccavano via via le maschere grottesche dei singoli personaggi.
Questa volta emergono dal coro dei diciotto attori il D’Annunzio di Riccardo Bocci, il Balbo di Paolo Musio, il Cesare De Vecchi di Michele Dell’Utri, il Bombacci di Tommaso Cardarelli, il Dumini di Alberto Onofrietti, la Ida Dalser di Diana Manea, la Margherita Sarfatti ridotta a cocotte di Sandra Toffolatti. Ma c’è anche la controparte patetica, il Matteotti di Raffaele Esposito, la vittima sacrificale di questa danza macabra, dove a fare una brutta fine è la verità manipolata dal demagogo.
La violenza di quegli anni e poi il ventennio mussoliniano plasmeranno la nazione: il fascismo è una tara da cui la democrazia del dopoguerra non riuscirà mai a emanciparsi.
Intermezzo
Anteo Zamboni e Carlo Alberto Pasolini
Un nesso che pare un segno del destino collega M alla parabola esistenziale disegnata da Ascanio Celestini in Museo Pasolini. A Bologna, due anni dopo l’omicidio di Matteotti, un anarchico quindicenne, Anteo Zamboni, attentò alla vita del Duce. A bloccare per primo il giovane attentatore, subito linciato dalla folla, fu un giovane tenente del 56º fanteria, Carlo Alberto Pasolini, il padre di Pier Paolo, nato il 5 marzo 1922, l’anno della marcia su Roma.
Atto secondo
Museo Pasolini
Celestini si reinventa cicerone della visita guidata a un immaginario Museo Pasolini (questo il titolo del monologo che celebra i cent’anni dalla nascita dello scrittore), per raccontare la continuità degli apparati dello Stato (e della mentalità di molti italiani) prima e dopo il crollo del fascismo, una continuità ideologica e amministrativa dimostrata dalla persecuzione giudiziaria che segnò la vita del poeta (perché questo si sentiva prima di tutto Pasolini: un poeta) con trentatré processi con le imputazioni più varie, oltre al sequestro di molte sue opere: dagli atti osceni in luogo pubblico alla diffamazione a mezzo stampa, dagli innumerevoli procedimenti per oscenità fino a vicende inverosimili come un processo per rapina a mano armata a un benzinaio.
Bastano pochi arredi, una sedia e una lampadina, secondo la retorica essenziale del teatro di narrazione, per evocare questa favola oscura sul potere e sulle sue ambiguità. Il fulcro della riflessione sono la consapevolezza politica e le pubbliche denunce di Pasolini, il celeberrimo “Io so” con cui lanciava con consumata retorica il suo atto d’accusa alla classe dirigente italiana
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
(…)
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
(“Corriere della Sera”, 14 novembre 1974)
E’ l’anima nera clerical-fascista-capitalista che Pasolini avrebbe cercato invano di smascherare in Petrolio (Einaudi, uscito postumo nel 1992), e che avrebbe fatto esplodere nel suo film-testamento, Salò.
Nel corso del suo monologo, Celestini non è solo il custode di questo fantomatico museo senza opere: in uno sdoppiamento che appare inizialmente una divagazione e che via via prende sempre più peso, è anche l’Altro, ovvero il potere. O, ancora meglio, i due volti del potere. C’è quello dichiaratamente fascista, bombarolo e golpista. Ma c’è soprattutto il livello dei veri potenti, i mandanti, in grado di usare la paura (e la minaccia fascista) come arma per tenere sotto tutela una democrazia sempre in libertà vigilata. E’ come se i due Mussolini disegnati da Scurati e Popolizio avessero mantenuto la loro continuità: un volto presentabile, che all’esibizionismo del Duce sostituisce le felpate e rassicuranti furbizie democristiane, e un lato oscuro, nero, violento, a esso collegato a filo doppio (magari con l’aiuto di servizi segreti italiani e stranieri). Ma l’alleanza può funzionare a una sola condizione: che il patto resti invisibile, segreto. In questo groviglio s’avventura Celestini, cercando di dare una voce alle “persone serie e importanti” accusate da Pasolini.
Intermezzo
Pietro Nenni e Aldo Moro
Tra l’Italia fascista stigmatizzata da Popolizio e quella del dopoguerra raccontata da Celestini c’è un altro punto di contatto (anche se Celestini non lo menziona esplicitamente): è il leader socialista Pietro Nenni, che di Mussolini fu giovane compagno di lotta (e di galera) e poi avversario politico. Nel 1960 Nenni sarebbe stato l’artefice, insieme ad Aldo Moro, dell’apertura al centrosinistra, con il governo Fanfani. Fu proprio il “rumore di sciabole” dei golpe militar-fascisti e il “Piano Solo” (veri o finti che fossero) a bloccare Nenni e a far fallire quella stagione di riforme. Alla costante minaccia autoritaria, e a quella a essa strettamente correlata della “strategia della tensione”, alludono Pasolini e Celestini quando evocano i pesanti condizionamenti subiti dalla democrazia italiana negli anni Sessanta e Settanta, tra attentati e misteri.
Atto terzo
Con il vostro irridente silenzio
Passano quasi vent’anni e il paese attraversa l’ennesima emergenza, quando subisce la tragica e demenziale sequenza degli attentati delle Brigate Rosse. Il garante democristiano dell’apertura ai socialisti, Aldo Moro, è ora il garante dell’apertura al PCI, che alle ultime elezioni ha aumentato i suoi consensi.
Il 16 marzo 1978 Aldo Moro, accompagnato dalla sua scorta, si sta recando in Parlamento per votare la fiducia al primo governo di “solidarietà nazionale” con l’appoggio del PCI, presieduto da Giulio Andreotti. In via Fani la sua scorta viene massacrata e il segretario della DC viene sequestrato dalle BR.
Anche Moro, a questo punto, è un uomo solo, in una democrazia che non lo difende. Come Matteotti e Pasolini.
Dalla sua cella scrive una lunga serie di lettere, lucide e disperate, e un memoriale che avrà una travagliata vicenda. Per i suoi compagni di partito – e per buona parte dei media – quei testi sono il frutto di una situazione di disagio, della violenza subita. Moro è stato plagiato dai suoi carcerieri, dicono. I suoi appelli politici e umani vengono ritenuti irricevibili, ignorati, sbeffeggiati.
Partendo dal lavoro dello storico Miguel Gotor, che ha riassemblato e commentato l’epistolario (Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Torino, Einaudi, 2008) e il memoriale (Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Einaudi, 2011), Fabrizio Gifuni dà voce allo statista democristiano utilizzando le sue parole, in un vertiginoso esercizio di teatro documentario.
Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro, Fabrizio Gifuni si pone in continuità con i suoi due precedenti monologhi sulla storia e sull’identità italiana, Una specie di cadavere lunghissimo (il cadavere è quello di Pasolini, ancora) e L’ingegner Gadda va alla guerra sulla disfatta di Caporetto.
La trasfigurazione dell’attore che si fa insieme leader politico e vittima sacrificale è davvero impressionante, quasi una possessione sciamanica. Gifuni fa emergere la qualità della scrittura di Moro, ma anche il suo pensiero complesso, volutamente involuto nella ricchezza di sfumature, allusioni, ellissi. Ma pian piano la prosa si scioglie, il pensiero si fa sempre meno politico e sempre più diretto. Fino all’ultima, durissima invettiva finale, tratta dal Memoriale misteriosamente ritrovato diversi anni dopo.
Epilogo
La tragedia italiana
Daniele Timpano ha raccontato negli spettacoli dedicati a Mazzini, Mussolini e Moro la sua la “storia cadaverica d’Italia”. Ha concluso il progetto con uno spettacolo su un’Italia popolata di zombi. Anche in questi lavori i corpi martoriati di Matteotti, Pasolini e Moro continuano a interrogarci sulla natura del potere in Italia. Le loro ferite sono un atto d’accusa a tutti noi, che Popolizio, Celestini e Gifuni rilanciano sulla scena. Inutile aggiungere che questo lato oscuro ha il suo basso continuo nel rapporto del potere politico (e dei killer neofascisti) con la criminalità organizzata da un lato e con il potere economico dall’altro.
In questa Italia, ci si può ritrovare soli, in un silenzio che fa male. Da vivi e da morti.
Antonio Scurati, in un brano che Popolizio riprende in una delle scene finali dello spettacolo, ricostruisce così la fatidica seduta della Camera dei Deputati, il 3 gennaio 1925, quando Mussolini pareva ormai inchiodato dalle sue mani sporche del sangue di Matteotti, massacrato di botte dai suoi sicari:
Uno solo.
E’ sufficiente che parli uno solo e lui sarebbe perduto.
Tra i capi delle opposizioni, ci sono uomini di coraggio (…) E’ sufficiente che si alzi uno solo per avvelenare tutto ciò che “Lui” avrebbe ancora da dire, annotato in pochi appunti aperti all’improvvisazione su di un foglio volante.
Nessuno si alza.
Balzano in piedi soltanto i cortigiani fascisti per applaudire il loro Duce.
Allora il Duce dilaga.
(pp. 822-823)
Dopo lo scandalo che lo obbligherà a fuggire da Casarsa per rifugiarsi a Roma (con annesso processo per “corruzione di minore”), il 31 ottobre 1949 Pier Paolo Pasolini scrive a Ferdinando Mautino, funzionario della federazione del PCI di Udine:
Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio invece della vostra disumanità: capisci bene che parlare di deviazione ideologica è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista.
(Pier Paolo Pasolini, Le lettere, nuova edizione a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini, Garzanti, 2021, p. 616)
Questa lettera non otterrà risposta. Verrà pubblicata solo dopo la morte dell’autore, nel 1977.
Aldo Moro, nelle mani delle BR, scrive nel suo memoriale:
Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. Se quella era la legge, anche se l’umanità poteva giocare a mio favore, anche se qualche vecchio detenuto provato dal carcere sarebbe potuto andare all’estero, rendendosi inoffensivo, doveva mandare avanti il suo disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chi sa quant’altro ancora. Che significava in presenza di tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della D.C.? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita? Tutto questo non significava niente. Bastava che Berlinguer stesse al gioco con incredibile leggerezza.
E’ un grido soffocato in gola. Nella voce e nel corpo di Gifuni, mette i brividi. Moro sa che deve morire e perché deve morire, e perché deve morire solo: solo i sensi di colpa collettivi intercettati da Marco Bellocchio lo faranno uscire in libertà, nella scena finale di Buongiorno, notte (2003). Invece, a chiudere lo spettacolo di Gifuni, sullo sfondo sfileranno i volti pietrificati dei leader politici che lo hanno condannato a morte, nelle immagini televisive del funerale di Stato.
Le bombe, i tentati golpe, il terrorismo, lo scenario internazionale, il terremoto, la crisi economica, lo spread, la crisi energetica, e magari la pandemia: sono tutte occasioni per speculare sulla paura ed evocare lo stato d’eccezione. Non serve nemmeno proclamarlo. La minaccia è sufficiente a rintuzzare le spinte democratiche, che pure in questo paese ci sono state, a rimettere ordine.
Se qualcuno eccepisce, non è un gran danno.
Se si agita troppo, se dà troppo fastidio, lo si lascia solo.
Prima o poi qualcuno si farà carico di risolvere il problema.
Si parla molto di “post-democrazia“, di “democratura”. Questi tre spettacoli ci raccontano come è possibile manipolare e condizionare la democrazia, utilizzando la paura, adottando misure d’emergenza, invocando lo stato di eccezione. Non sorprende che, di fronte alle misure “straordinarie”, “necessarie” e “temporanee” determinate dalla pandemia, e alle conseguenti limitazioni della libertà personale, questi temi tornino di attualità.
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